Il calcio va verso la deriva del disinteresse. La stampa strombazza mondi che non esistono. Il pareggio a Cagliari non aggiunge nulla a un’inerzia consolidata
“No offence intended” o “sine ira et studio” – a seconda che si preferisca la via anglosassone o quella più classica – seguire il Napoli è divenuto ormai un conclamato esercizio di estrazione dell’acqua dal deserto. Viene un tempo in cui, per forza di cose, si considerano gli investimenti necessari all’opera ed il senso dell’impresa.
C’è infatti una domanda che non posso più eludere e che più o meno suona così: se anche davvero dovesse capitare di vincere, ove mai si riuscisse a sintetizzare, in mezzo a tonnellate di sabbia, una goccia, ne uscirei più felice? La risposta, da tempo, non posso negarlo, è sempre più interlocutoria, né per disfattismo né per inimicizia verso il gusto di godere, piuttosto perché anche nella famigerata vittoria ciascuno deve trovare un cantuccio nel quale potersi ritrovare a proprio agio e io sento che quello spazio si è ristretto a tal punto da non permettermi neppure di sostarvi in piedi.
Da tifoso di una squadra perdente per antonomasia come quella azzurra, non è certo il recente pareggio contro la terzultima in classifica, corollario di un previsto fallimento di aggancio in vetta, ad aver mosso gli equilibri. Non si decide di consultare la mappa al trilionesimo errore compiuto nello svoltare strada. È piuttosto il dove ci ha progressivamente spinto la marea ad aver prodotto un certo disinteresse. Ci ritroviamo in un luogo in cui il campionato rimane aperto per manifesta incapacità delle proprie concorrenti, su un palco dove ogni giorno qualcuno pignora un pezzo di scenografia e la stampa strombazza mondi che non esistono, mentre lo iato col resto del mondo è tale da farci sentire su una zattera alla deriva e lo stadio e la simbolicità di questo sport stanno svanendo in qualcosa d’altro che persino il calciatore-manager Valdano inizia a chiedersi se possa assomigliare ad un futuro. Insomma, la vittoria è un contenitore che ciascuno può riempire delle proprie curiosità, mentre ad accompagnarci in questo lungo tramonto è la solita marmellata calcistica partenopea che fa della scelta lucida alla rinuncia – al risultato, alla vittoria, alla responsabilità, metteteci ciò che volete – la propria stella cometa.
Cagliari è una metafora plastica del Napoli: il vento che spazza via in direzione contraria infiacchendo ogni passaggio ed un portiere – figlio di una eterna scelta discutibile – che si auto infligge un gol per poi salvarne uno dopo e finire con il costante sei in pagella di stima. Ieri sera la mia speranza di fare un punto in Sardegna si è trasformata troppo da vicino in un piccolo desiderio che scalda i plaid e le tisane degli ospizi.
Esistono nel Napoli una inautenticità, per così dire una tristezza, che è probabilmente comune a tutto il campionato, che, almeno personalmente per chi scrive, è difficile fingere di non vedere e che non è legata né al talento dei singoli né alla concreta possibilità di trionfare. La corsa di Gargano che ha appena segnato contro la Juventus per me può bastare. Ho piuttosto l’impressione che questi anni di ricami di capitani coraggiosi e storie sportive a ventiquattro carati che in realtà sono solo buona bigiotteria rimarranno nella memoria come tempi, tutto sommato, trascurabili, in cui si è tentato di estrarre monossido di idrogeno da montagne di polvere. In cui l’ennesimo tentativo dialettico dell’allenatore di raccontare Petagna non sia più un esercizio necessario a tenere assieme una storia comune, cui potersi relazionare, e neppure un necessario imparare a sostenere il peso della sconfitta, ma un training autogeno per abituarci a questo svanire. Ed io, se possibile, vorrei continuare ad essere un perdente evitando di abituarmici.