L’ex arbitro al Giornale: «Diego era, anche dal punto di vista disciplinare, un fuoriclasse. La mia designazione per quel fatale Verona-Milan fu improvvida»

Su Il Giornale una lunga e bella intervista a Rosario Lo Bello, figlio del mitico arbitro Concetto Lo Bello. Oggi in pensione, racconta che il cimelio più bello che conserva è un pallone di cuore regalatogli da Maradona.
«È il cimelio che mi sta più a cuore. Me lo regalò Maradona in occasione di un Napoli-Parma che segnò la mia centesima partita in serie A».
Su Diego:
«È stato il più grande di tutti. Anche di Pelè. Non meritava di finire così. Ma la colpa è stata anche dei tanti sciacalli travestiti da falsi amici. Lo hanno spremuto, sfruttato fino all’ultimo giorno di vita».
Con Diego non ha mai litigato in campo.
«Mai. Diego era, anche dal punto di vista disciplinare, un fuoriclasse. Con me è sempre stato un modello di correttezza. Io cercavo di tutelarlo dai tanti falli che subiva. Alcuni erano interventi cattivi, ma lui non si lamentava. Incassava, si rialzava senza protestare, riprendeva a fare le sue giocate geniali».
Racconta un aneddoto legato al Pibe.
«Sampdoria-Napoli. Al momento del sorteggio campo-palla mi accorgo di avere dimenticato la monetina negli spogliatoi. E allora dico a Diego sottovoce: “Giriamoci dall’altra parte”; lui mi guarda stralunato e mi fa: “Ma perché? Cosa dobbiamo fare?”. E io: “Ho dimenticato la monetina, il sorteggio facciamolo a mano, col pari e dispari“. Lui si mise a ridere e stette al gioco, così come il capitano della Sampdoria. Nessuno si accorse di nulla. Neppure i fotografi».
Lo Bello parla del mestiere di arbitro e del suo passato, in cui c’è anche Verona-Milan del 1990, ribattezzata «Fatal Verona», dove i rossoneri dettero addio a uno scudetto ormai «sicuro».
«Nella storia degli scudetti persi in extremis dal Milan c’era stata un’altra “Fatal Verona“, con la partita-chiave diretta da mio padre il 20 maggio 1973. Alla luce di quel prece- dente, la mia designazione per quel Verona-Milan del 1990 fu quindi a dir poco improvvida da parte dell’allora capo degli arbitri, Cesare Gussoni. Premesso ciò, ribadisco che le espulsioni di Van Basten, Rijkaard, Costacurta e mister Sacchi, furono giuste e inevitabili».
Le racconta:
«Van Basten, per un banale fallo subìto a centrocampo, si tolse la maglia, la gettò a terra e imprecando mi venne incontro in canottiera; Rijkaar si avvicinò a me, sputò a terra e poi mi sputò su una scarpa; Costacurta ebbe un atteggiamento violentissimo contro un segnalinee e Sacchi protestò in maniera esagerata».
Con Van Basten sono finiti alle querele, ma l’ex arbitro si dice disposto a perdonarlo.
«Per fare pubblicità al suo libro di memorie, ha ritirato in ballo quell’episodio di 30 anni fa, ipotizzando che avessi intenzionalmente danneggiato il Milan. E questo non posso accettarlo. Sarei disposto a far pace. Io non serbo rancore a nessuno. Questo è un altro principio fondamentale dello sport: quando finisce una gara, qualsiasi screzio sia accaduto prima, lo si dovrebbe dimenticare. Stringendosi la mano».
Del padre racconta che solo una volta andò a vedere una partita in cui era lui l’arbitro.
«Una sola volta. Ero agli inizi e dirigevo una gara di serie D. Lui si era nascosto tra il pubblico, ma a “tradirlo“ fu un colpo di tosse. Lo riconobbi immediatamente».
E racconta anche un altro episodio, di poco precedente alla sua morte.
«Poco prima che ci lasciasse, a soli 67 anni. Ero accanto a lui in ospedale. Mi strinse la mano, felice di vedermi. Era molto malato e parlava a fatica. Mi allontanai un attimo dal letto e lui ne approfittò per sussurrare nell’orecchio di mia sorella: “Digli di prendere subito l’aereo e di andare a fare il suo dovere“. Il giorno dopo ero all’Olimpico a dirigere il derby Roma-Lazio. Il modo migliore per rendere omaggio al principe degli arbitri e a un padre indimenticabile».