Razzismo, economia, diritti, sono piaghe aperte che vanno curate con altri diritti. Vi si ritrovano le caratteristiche del thriller svedese e della trilogia larssoniana

Oramai sui social se non sai consigliare una serie da vedere assolutamente sei un minus habens, ma per chi è alla ricerca di senso e non solo di un passatempo che non faccia pensare consigliamo “Il giovane Wallander” – ora i primi episodi sono anche su Netflix; siamo già alla seconda stagione poiché la serie è del 2020 –, che disegna il prequel di quello che è stata la serie de “Il commissario Wallander”, che molti di voi avranno visto da ultimo su LaF e che aveva in Kenneth Branagh il protagonista angolare.
In realtà Wallander è un personaggio creato dal compianto – da noi – scrittore svedese Henning Mankell, che quest’ultimo faceva agire nel territorio di Ystad, padre single tormentato con una figlia anch’ella poliziotta. Nella ricostruzione di Ben Harris – perché “Il giovane Wallander” è solo basato sul personaggio creato da Mankell –, in realtà, fin dai primi episodi, rivela solo lontanamente una personalità vicino al maturo Kurt.
Il giovane Wallander (Adam Pålsson) giovane agente aspirante detective lo ritroviamo invece nel quartiere di Rosengârd di Malmö alle prese con il suo primo caso: quello dell’uccisione di un ragazzo nel suo quartiere che viene fatto saltare in aria con una bomba in bocca davanti a lui. Kurt vive in un quartiere difficile dove lo scontro tra svedesi ed immigrati è una ferita aperta ed in questa prima fase della sua esperienza lavorativa è in cerca di certezze di vita e lavorative. Suo mentore è il sovrintendente Hemberg (Richard Dillane) che lo svezza anche nelle prassi poliziesche dimentiche della forma della Legge. Perché vedere allora “Il giovane Wallander” che come dice Manzoni “è poco noto agli altri, come a sé stesso?”. Perché anche nella rivisitazione di Harris – la serie è britannico-svedese – accanto ad un personaggio in nuce ritroviamo le grandi caratteristiche del thriller svedese proprie anche della trilogia larssoniana: una società come quella nordica dove i contrasti – il razzismo, l’economia, i diritti – sono piaghe aperte che vanno curate con altri diritti.
Niente di utopico, mitologico, distopico, ma segno e significato di una società odierna che riguarda tutti noi, stretti da pandemie e guerre capitalistiche, senza più riferimenti con quelle che consideravamo situazioni di convivialità acquisite.