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Kyrgios distrugge la deriva del Bar Sport: non sapete niente, state zitti al posto vostro

La pazza idea che ogni opinione conti, produce mostri: il mondo è pieno di persone che vogliono spiegare a un professionista come si batte Nadal

Kyrgios distrugge la deriva del Bar Sport: non sapete niente, state zitti al posto vostro

Una volta erano quattro amici al bar. Il mezzo litro di vino, il tressette a perdere, la Gazzetta quando ancora era la Gazzetta stravolta su un tavolino, in disparte. Consumata dalle letture del mattino. Tutti avevano un’opinione su tutto, e la reclamavano a gran voce, in mezzo ai bestemmioni per una presa sbagliata. Al Bar Sport potevi criticare il gioco di Maradona, ad avercelo di faccia ti saresti inchinato a baciargli il piede divino, ma lì no: al bancone tutti eroi, scienziati, campioni. Ora stanno in prima fila, ad un metro abbondante dagli sputi di Kyrgios, possono avere la faccia hollywoodiana di Ben Stiller che se la ride mentre un vicino sconosciuto urla a uno che ha appena fatto un ace dal basso a Nadal che non si fa. Che si fa così, e così. Che, magari, lo schema è sbagliato, la seconda seguita a rete un azzardo, che forse usando meglio il back di rovescio… Non c’è più argine, limite. In genere il campione, composto, educato, abbozza. Kyrgios invece si gira e ribatte:

“Stai giocando tu? Vuoi giocare tu? Sei bravo a giocare a tennis? No? E allora perché continui a parlare? Per caso io insegno a lui a recitare (a Ben Stiller, ndr)? No!”

Non fosse abbastanza chiaro il concetto, e non volendo che passasse per una delle sue bizzarrie, l’australiano ribadisce in conferenza stampa:

“E’ un problema di questa generazione. Tutti credono che la loro opinione sia valida, importante. Sei uno spettatore, guardi i professionisti giocare a tennis, dovresti solo stare zitto. Non dirmi come giocare. Siediti al tuo posto e guardami giocare a tennis. Questo è tutto”.

Questo è tutto, appunto. Tanto che questo sfogo diventa subito l’apertura dell’Equipe, quotidiano sensibile ai grandi temi dello sport più che alle sue piccolezze. Kyrgios centra un punto focale del rapporto disfunzionale tra lo sport moderno e il suo pubblico. La pretesa del tutto marziana che l’uomo comune possa ergersi a maestro di vita, professione, morale. L’idea deteriore, persino goffa, che la propria parola abbia un valore in quanto tale, indipendente dalla situazione, e che “l’urgenza” d’espressione sia un bisogno fisiologico da espletare senza pudicizie, senza continenza. Fino alla deriva più spettacolare: i vip col posto assicurato a bordocampo che ambiscono a far parte dello show anche quando non è il loro palcoscenico. Per maleducazione, ma soprattutto per opacità di contesto: fanno tutti così, figurarsi loro. Gli addetti ai lavori cominciano a stufarsi. Durante il match, per dire, persino il giudice di sedia ad un certo punto ha sbottato contro un tipo che non smetteva di vaneggiare dalle gradinate: “Qui ci sono 10.000 persone che vogliono vedere il tennis, e tu sei l’unico che urla come un pazzo, taci”.

Non succede in molti altri ambiti. Persino Kyrgios (uno che non conosce sobrietà) sa che se si presentasse sul set a catechizzare Al Pacino sarebbe accompagnato all’uscita dalla security. Altrettanto: non ti accomodi in sala operatoria e indichi al chirurgo come sostituire una valvola mitralica perché l’hai visto fare in un tutorial su Youtube. Lui fa il tennista, e lo fa – al netto del suo gioco un po’ psichiatrico – da dio. A volte, a sprazzi, persino meglio di Nadal. Cosa passa per la testa d’un essere umano senziente quando alza la voce per rinfacciare a uno così che sta giocando male? Qui c’entra poco la tuttologia da bar, è questione di Legge Basaglia. E’ un tic alimentato dalla recessione di giudizio che i social hanno provocato.

C’è anzi un sottostimato servilismo degli sportivi al giudizio del pubblico, qualunque esso sia. Per quiete, per attenzione alle pubbliche relazioni, per abitudine e prassi. Fa il paio col narcisismo della gente che odia sentirsi comune. Gli atleti, gli allenatori, sono da sempre vittime consapevoli d’un sistema che li tiene al guinzaglio: imparano a tapparsi le orecchie da piccoli, a parlare poco e male, a pensare peggio per troppo tempo. E’ quel fenomeno per cui, dopo una sconfitta, undici calciatori professionisti corrono sotto una curva a raccattare le peggiori offese in quanto non degni di supporto. Parliamo di uomini fatti, pagati cifre mostruose perché sono i migliori a fare quello che fanno, che chinano il capo mentre il carpentiere, il macellaio, il medico o il notaio gli urlano a brutto muso di “andare a lavorare”. Perché loro certamente saprebbero fare un dribbling meglio di Messi. O un tweener meglio di Kyrgios. Gli stessi che poi nella vita privata (che spiattellano ad ogni ora del giorno su Instagram) non permettono a chicchessia di fiatare sulla loro professionalità, consista essa nello scegliere le percoche al mercato o nel trattare azioni a Piazza Affari. Su un campo da tennis Ben Stiller vale il suo vicino di seggiola o il fratello di Parascandalo, e devono stare zitti. Al posto loro, pure se l’hanno pagato.

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