Ci risiamo con la solfa dei giovani: ora invocano le “quote baby” ma sovraniste, via gli stranieri dalla Serie A. Ma solo in Italia i giovani sono vessati in quanto tali
A cadavere di Nazionale ancora caldo il presidente delle Federcalcio italiana era già sceso in conferenza “a metterci la faccia” – eroe – fingendo di non puntare il mirino metaforicamente su quelle altrui. Il tema – mentre ancora il mondo si chiedeva “ma davvero ci ha buttato fuori la Macedonia? Nemmeno tutta intera ma solo quella del nord?!” – era già l’eviscerazione delle colpe. Di più: Mancini balbettava, quasi gutturava, “non è possibile” e tutt’attorno le signore mie dell’Italia devastata dalla prospettiva d’un inverno senza Mondiale sapevano già dove puntare il dito: i giovani.
Ora, i giovani in Italia sono vittime sacrificali. Non sappiamo manco definirli, ci buttiamo dentro una leva di adulti che va dai 13 ai 50 anni, figli di famiglia, padri della stessa famiglia. Tutti giovani con un futuro inesplorato davanti. Ecco, pure nel calcio i giovani sono il dito della famosa metafora. La luna sono i vecchi. Quelli nessuno li guarda, anche se è Gravina (che è del 1953) che ci ripropone la stessa marmellata d’intenti mezzo vendicativi mezzo costruttivi. Trasliamo per bene: l’Italia che non va in Qatar è l’espressione sportiva della società baronale. Il pallone è solo la trasposizione fluorescente del sistema tutto. Nel quale i giovani sono colpevoli d’essere giovani.
Vale all’Università, nella carriera ed è irrimediabile che accada anche nello sport, in linea di principio terra della meritocrazia. In Italia i giovani devono compiere un rituale di vessazione, e finché non lo completano non possono dirsi maturi. Restano inabili al ruolo, fintantoché il nonnismo strutturale non li ha limati, sfruttati, sfottuti, frustrati. La chiamano ancora “gavetta”. Gli suona piena, in bocca, la gavetta. E’ un principio cardine, imposto dagli avi ai padri per generazioni. Garzoni della vita, costretti ad arrampicarsi fino a farsi riconoscere una finestra, una chance. Solo i soldati ne erano esentatati: in guerra i giovani si mandano, sono pronti.
Tutto il tronfio rituale della sconfitta presuppone il successivo passaggio: il sovranismo scemo. “Chiudiamo la Serie A ai giovani stranieri!”, “i giovani stranieri ci rubano il posto in squadra” (e le nostre donne, è il sottinteso). E’ un bonus: alla carta d’identità aggiungi la nazionalità ed ecco la ricetta per la salvezza. Costringiamo un campionato intero alle “quote giovani italiani” e vediamo poi se al Mondiale non ci andiamo. Va da sé che le altre nazionali che al Mondiale ci vanno già non hanno barriere architettoniche. Ma fanno, piuttosto, una cosa che in Italia non si fa perché altrimenti è peccato: li usano, i giovani.
In Spagna giocano titolari i post-adolescenti. Perché sono bravi, l’anagrafe non fa gol. Si può discutere, certo, su quanti giovani bravi il calcio italiano produca, ma non è quello il punto. Il punto è l’infrastruttura preconcettuale per cui un ragazzo prima di sbocciare dovrà vedersela col suo vecchio di riferimento. Mettersi in lista d’attesa, in coda. Programmare un periodo di latenza se si vuol restare a casa. O andarsene altrove. Come Verratti, che in Serie A non ci ha mai giocato, ma è pur sempre perno del Psg. Verratti, come Scamacca o chi per lui, in Italia fa provincia. Deve fare penitenza per dettato quasi costituzionale. Mentre le baronìe scandiscono il tempo dell’eventuale successo. Mourinho, che avrebbe tutto per farsi barone, da queste parti passa per “pazzo” quando mette titolari i Primavera. Poi lo rinfaccia alla stampa, come sa fare solo lui: “Bambino ha fatto grande partita, non capite niente”.
Mancini – che viene dipinto come John Keating nell’Attimo fuggente – ha costruito la sua Nazionale con casting da 60 giocatori, qualcuno persino dalla B. Come si fa alle preselezioni di X Factor. Poi al dunque, per i playoff s’è portato Scamacca e Joao Pedro, un oriundo trentenne del Cagliari che non segna da qualche mese, naturalizzato ad hoc. Uno l’ha mandato in tribuna l’altro in panchina. Producendo così una perversione: la formazione si sceglie per riconoscenza. Siamo ben oltre i baroni. La sconfitta per coerenza è così perfettamente italiana.
Sembra ieri che colpevolizzavamo i professoroni universitari che assegnavano come testi per l’esame quelli scritti da loro stessi. In un ritorno d’edonismo che è la cartolina professionale di questo Paese. Ora non ci basta nemmeno più mortificare i giovani in quanto tali, usandoli come stratagemma retorico per darsi una via d’uscita. No, ora giochiamo ancora più al ribasso: chiudiamo il recinto, imponiamo le quote baby azzurri. Tanto le chiavi ce le hanno i vecchi, che sempre coi giovani se la pigliano.