Si ritira da numero 1, a 25 anni. Rifiuta di essere definita dallo sport in cui le è capitato di essere assurdamente brava
Ash Barty ha deciso di non essere una statistica. Tre mesi fa, dopo aver dominato e vinto gli Australian Open a casa sua, ci si chiedeva quanti Slam avrebbe vinto ancora. Lei ha risposto che non ne vincerà più. Zero. Perché non gliene frega niente di rincorrere record e palline da tennis. Smette. Ha 25 anni, può fare tutto e ha intenzione di non sprecare il suo tempo nella perdizione, nelle ambizioni altrui. I sogni, dice traslitterando il video dell’addio che ha postato sui social, si realizzano e si passa ai successivi. “Ho vinto Wimbledon, mi basta”. O meglio: non le basta più. “Altro” è una parola che lo sport moderno contempla sempre meno. La narrazione dell’ostinazione epica s’è mangiata tutto. Barty vive su un altro pianeta, fatto di talento e freschezza, di trasgressione persino: vado dove voglio, dove sono felice. Amen.
È la prima giocatrice a ritirarsi da numero 1 dopo Justine Henin, la prima a chiudere la carriera vincendo una finale di uno Slam dai tempi di Pete Sampras. E’ una chimera che tutti i campioni si raccontano da sempre, questa: lasciare quando si è in cima. Non ci riesce quasi nessuno. Si trascinano nella gloria, fino ad arare un solco più profondo del precedente, per poi affrontare il trauma del dopo. Ve la ricordate la celebrazione quasi funeraria dell’ultimo saluto di Totti all’Olimpico? Appena ieri Ibra ha ammesso di non sopportare l’ansia di smettere. S’è presa 23 milioni e 800 mila dollari di montepremi, 15 titoli in singolare, tre Slam (Parigi 2019, Wimbledon 2021, Melbourne 2022).
Barty è diversamente ambiziosa, come è stata diversa in campo (a proposito: dite ciao ciao pure al rovescio in back, tra le donne non lo gioca più nessuno). Rifiuta di essere definita dallo sport in cui le è capitato di essere assurdamente brava. Le sue aspirazioni sono temperate dalla prospettiva: sapere cosa vuoi, ottenerlo, goderselo. Wimbledon, nel suo caso, e poi “il conto aperto” con lo Slam australiano. Check, check. Che altro, dopo?
Attorno a lei, nel frattempo, lo sport è diventato una patologica ricerca della quantità. Vincere tanto, di più. Tutto. La sua è una rivoluzione della qualità. Quando ha vinto Wimbledon, 50 anni dopo Evonne Goolagong Cawley, ha indossato una replica del suo abito. Dopo aver vinto a Melbourne Park, ha portato il suo trofeo a Uluru e ha giocato a tennis con i bambini indigeni. Nel gennaio del 2020 aveva perso la semifinale dell’Australian Open contro Sofia Kenin: andò in conferenza stampa tenendo in braccio la nipotina di 11 mesi, Olivia. La criticarono per aver usato la piccola come “scudo”, per non subire domande scomode. Il suo messaggio, scandito rumorosamente oggi, è che era solo una partita, una sconfitta, la vita è un’altra cosa.
Aveva già smesso nel 2014, a 18 anni. Era tornata a casa, in Australia, per giocare a cricket nella Women’s Big Bash League. Poi lo aveva rifatto, per il golf. Vinceva anche lì. Deviazioni. E’ stata una delle ultime campionesse d’ogni sport a tornare in campo dopo il lockdown, sottolineando così – scrisse il Guardian – l’irrilevanza dello sport durante la pandemia. E’ tornata, sottolineando però che il tennis non avrebbe governato mai più la sua esistenza“. Che mai più la depressione e l’ansia se la sarebbero presa, come era capitato quando quel talento era esploso troppo presto.
Era uscita dalla top-200, era tornata al numero 1 vincendo al Roland Garros, con un gioco inesorabile: il fascino della varietà, della naturalezza, della compostezza. Un’amicona di tutte, col boccale di birra in mano al posto delle nevrosi. Il “Barty Party” era diventato un marchio di lifestyle. La vita tagliata con lo slice. Vincente.