Il calcio è stata l’unica novità di Napoli negli ultimi 15 anni. È Napoli che non è mai cambiata. E lui rischia con i suoi soldi
Non c’è sorpresa, francamente, né traspare alcuna colpa nelle parole dell’ultima intervista di De Laurentiis. È del tutto normale attendersi che per un imprenditore del calcio il tifo sia correttamente sovrano, come sovrano è il cliente per qualunque attività a scopo di lucro. Come lo erano le curve anche per i grandi presidenti che oggi si magnificano – senza i biglietti, le maglie acquistate, gli abbonamenti firmati dei tifosi non esiste alcun business possibile.
È un filino anche ingeneroso descrivere il populismo di De Laurentiis come marcatamente personale o regionalmente specifico. C’è un pizzico di complesso di inferiorità latente in queste accuse. I presidenti di qualunque società di calcio sono attori largamente viscerali e tipicamente poco razionali che lasciano enormi disponibilità economiche alla mercé del populismo. È quanto si chiama, in termine tecnico, “calciomercato”. Se pensate che Berlusconi non lo fosse, bisogna ricordare colpi di mercato come De Napoli, o Lentini, passando per Borghi e Ronaldinho. La differenza tra i presidenti di calcio risiede quasi esclusivamente nelle loro disponibilità economiche di partenza (sulla cui origine, una volta tifosi, nessuno più si interroga, perché il calcio è una droga) che possono rendere coraggioso un codardo e restio un munifico.
De Laurentiis ha fatto ciò che poteva. E voleva. Ma non doveva. Ed è stato moltissimo. Ha portato in città due degli allenatori più importanti del pianeta. Ha attratto alcuni tra i migliori attaccanti della propria generazione. Ha condotto la squadra in semifinale di una coppa continentale, e in numerose occasioni l’ha spinta a ridosso della prima in classifica. Ha vinto qualche volta. Lo ha fatto lui, con i soldi suoi. Si è poi spesso ritirato quando ha sentito il vento cambiare perché tanto gli rendeva possibile ed opportuno il suo status patrimoniale. Un presidente di calcio vuole essere amato – non c’è niente di male in questo. Se pensate che la famiglia Moratti abbia investito nel calcio per amore altrui o di Milano e non per amor proprio allora siete pronti a credere a tutto. Anche agli scudetti persi in albergo.
Ciò che, viceversa, è rimasta immobile, come un blocco granitico custodito in fondo al mare, è stata la città. Su questo varrebbe la pena interrogarsi, se non lo avessimo già fatto mille volte. Che noia. Una città che è identica a cinque, dieci, quindici anni fa.
Domandatevi quale sia un investimento, un lavoro infrastrutturale, una impresa culturale, un cantiere, un movimento cittadino che abbia profondamente caratterizzato, mutato, simboleggiato la città negli ultimi quindici anni. Se escludete il calcio, non c’è nulla. A meno che non riteniate la rivoluzione arancione una cosa.
Napoli è uguale a se stessa, infiacchita e sostanzialmente sterile, da molto tempo. E nessuna colpa c’è in un presidente che acquista un grande allenatore e lo porta sotto la curva: è quest’ultima, infatti, il giudice ultimo del gioco ed è quest’ultima che non ha risposto ai numerosi richiami, alle autentiche sfide lanciate da un signore che ha chiamato player mondiali in un luogo dove la depressione economica e sociale è conclamata, da tutti, eccezion fatta per chi ci vive.
De Laurentiis potrà vendere su Amazon quello che vuole ma, finché non si lavorerà ad una ingegnerizzazione sostenibile dell’ubiquità, in città rimarranno maggioritari i “meno”, come in qualunque fenomeno migratorio o ciclo storico planetario – e sulle gradinate ci finiranno loro. Come ogni strumento, anche i fenomeni sociali hanno il proprio fondoscala e quello napoletano è stato raggiunto molte, moltissime volte.
De Laurentiis ha dato l’impressione che l’irrilevanza potesse giungere meno velocemente, allontanando questo termine ultimo con una operazione che le persone hanno confermato essere illusoria. Insomma, niente di nuovo sotto il sole e in riva al mare.