Non si vince per blasone. Ha accettato di essere più debole, ed è sopravvissuto. Il braccino spesso è un alibi
E’ pazzo. Che è giudizio diretta conseguenza di quella assurda bellezza. La deriva inspiegabile del gesto, che non rispetta il momento e il contesto, se ne fa beffe, è istintivamente un magnete. Noi guardiamo rapiti Benzema che fa “er cucchiaio” a Guardiola, irride l’epica del rischio, e veniamo risucchiati in un buco nero abitato dal solo bomber del Real Madrid, la sua barba accarezzata di contorno ad un sorriso. E prima da quello sguardo torvo – ingrugnito, cattivo – all’arbitro che non fischia, che non lo libera. E poi alla reazione a quel fischio – “vai” – come se non ci fosse altra scelta: il Panenka. Senza un accenno di esitazione, senza pensare ai due rigori sbagliati di fila contro Osasuna e Celta Vigo, come se quella fosse la sua unica dimensione possibile.
E quindi è pazzo Benzema? No, non è pazzo. Siamo noi che, abbagliati, indugiamo sui contorni di quella figura radiosa, scostumata, definendone la sguaiatezza e l’invincibilità come un tratto d’improvvisazione. Invece, dietro, nell’ombra, c’è la fatica. C’è sempre, la fatica. C’era nelle punizioni che Maradona provava e riprovava per ore al Centro Paradiso, figurarsi se non c’è nella preparazione alla semifinale di Champions di Benzema: “L’aveva provato in allenamento, quel rigore”, dirà dopo Ancelotti non riuscendo a trattenere le rotative della retorica già avviate.
El Mundo aveva già mandato in pagina il rigore “nelle mani degli dei”; As il racconto di Guardiola “seduto su una borsa termica, in vero stile Bielsa, con il viso coperto dalle maniche del suo cappotto di felpa nera”; il Telegraph l’elogio del “miglior attaccante d’Europa”:
“Bastava tirare forte. Probabilmente è ciò che il 99% degli attaccanti che avevano sbagliato tre dei precedenti quattro rigori, avrebbero deciso di fare, se si fossero trovati nei panni di Karim Benzema. Il solo pensiero di eseguire un cucchiaio in quel momento, avrebbe fatto venire i sudori freddi alla stragrande maggioranza dei giocatori. Molti avrebbero passato il testimone e alcuni sarebbero perfino stati applauditi, per averlo fatto”
Tutto il resto è un rosario di “nervi d’acciaio”, “uomo con il ghiaccio nelle vene” eccetera eccetera. Verità insindacabili, peraltro. La cronaca definitiva di cosa serve al campione per essere un vincente, e per simmetria di cosa ha bisogno una squadra per vincere: i campioni. Il parallelo con il Napoli, a questo punto del ragionamento, si disinnesca da solo. Unità di misura diverse, non comparabili nemmeno facendone la radice quadrata.
Ma dietro la patina sovraesposta di una partita stupenda, c’è il risvolto sudato della morale, tradotto benissimo dal New York Times: “il Manchester City ha battuto il Real Madrid ma ha concluso la serata sentendosi come se avesse perso”. E questo perché il Real Madrid non s’è mai lasciato battere. Più il City creava, tirava e segnava (“potevamo farne otto”, dirà poi giustamente Guardiola) più il Madrid se ne stava “ancora lì, sorridente, lamentando solo un lieve mal di testa”. Come Rocky Balboa che all’angolo urla: “Non fa male! Non fa male!”.
Se il Real Madrid è ancora vivo, in gioco, è perché è ontologicamente una grande squadra. Non per blasone, ma per consistenza. Per lavoro. Per propensione alla lotta. Una nobiltà madida.
Il Real non è Real per bontà divina, ma lo è rimasto al cospetto di una squadra oggettivamente più forte, accettando di essere più debole. Avrebbe potuto naufragare, e invece s’è messo di bolina, risalendo il vento opposto fino a restare incagliato nella storia che ora tutti celebriamo con la cifra del clamore. City-Real è stato sì un unicorno del pallone, avvolto in una nebbia satura di paillettes. Ma ha tradotto la grandezza con una metrica parallela: non si è solo Real, ma si può essere Real per caparbia, ostinazione, pervicacia, risolutezza. Per tigna. Per assurdo tutti possono essere Real, nel proprio piccolo. Guardando il mondo come Benzema guardava l’arbitro e di sponda il destino. Il braccino a volte è un alibi.