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Quando Rincon si sfogò: «A Napoli per strada mi insultano, non vedo l’ora di andar via»

Lo sfogo coi giornalisti a febbraio 95, parlò anche di razzismo, poi sul razzismo ritrattò. Attaccò compagni e società. Guerini lo paragonò a Gullit. Ma lui non era Gullit

Quando Rincon si sfogò: «A Napoli per strada mi insultano, non vedo l’ora di andar via»

Freddy Rincon non fu solo Napoli-Lazio 3-2. Il povero colombiano scomparso ieri a 55 anni, dopo un incidente automobilistico, fu un oggetto misterioso nella sua avventura a Napoli. Un po’ come anni dopo lo fu Vargas. Anche perché, come Vargas, arrivò in pompa magna. Era l’estate del 94. Rincon era uno dei protagonisti della Colombia di Maturana primo esempio di calcio passa a me passa a te, a ritmi mooooooolto compassati. Fu lui, nel 1990, con un gol al 92esimo alla Germania, sotto le gambe del portiere Illgner, a portare per la prima volta la Colombia agli ottavi di finale di un Mondiale. Fu lui a segnare una doppietta nella storica vittoria della Colombia 5-0 in casa dell’Argentina.

Arrivò a Napoli nel 1994. Il Napoli era in piena fase discendente. Ferlaino aveva strettissimi rapporti con Tanzi. Funzionava così: i nostri più forti finivano a Parma (Zola, Crippa, Cannavaro), gli scarti o le scommesse arrivavano a Napoli. Tra queste Rincon che era del Palmeiras (proprietà Tanzi).

Il tecnico del Napoli era Guerini (esonerato dopo poche giornate) che – chissà perché – disse di Rincon: «ne farò il nuovo Gullit». Freddy non aveva nulla di Gullit. Sì era alto, era potente, ma aveva il passo cadenzato, ottima tecnica ma non un fulmine. Quella frase contribuì a creare grandi aspettative. Guerini piazzava Rincon in attacco, lui si adeguava ma sapeva che non era il suo ruolo. Protestava. Il Napoli perdeva e lui era criticato, bersagliato dai tifosi. La doppietta al Padova (il Napoli pareggiò 3-3 dopo che era in vantaggio 3-1) non cambiò la situazione. Un po’ meglio andò con l’arrivo di Boskov che subentrò a Guerini. Ma a febbraio Rincon si sfogò con i giornalisti che allora potevano serenamente chiacchierare con i giocatori, non c’era lo sbarramento come oggi. Ecco cosa scrisse Repubblica l’11 febbraio del 1995. Il pezzo è a firma Francesco Rasulo.

Rincon contro Napoli. Anzi, la città contro Rincon. Ma stavolta non è una storia di gol. E’ una storia sorprendente di razzismo, in una città che ha mostrato più di una volta la sua tolleranza e il razzismo l’ ha semmai subìto, sulla propria pelle. Rincon era il giocatore nero venuto dalla Colombia per fare grande la squadra, poi è diventato l’ oggetto misterioso, l’ attaccante deludente che ha ispirato al San Paolo solo fischi e antipatici cori. Oggi è un uomo che non può uscire di casa, perchè è coperto e inseguito dagli insulti dei tifosi. E che ieri si è lasciato andare a uno sfogo amaro: “Mi sento prigioniero di questa città. Non esco di casa, di Napoli non conosco nemmeno le strade. Quando posso, corro lontano. A Bari, o a Roma, a trascorrere il mio giorno libero. Qui non ne posso più, non vedo l’ ora che finisca il campionato. Per strada mi insultano, mi dicono cose brutte, cattiverie…”.

Rincon non vuole chiarire. Ma sono insulti razzisti quelli che alcuni tifosi hanno rivolto a lui, alla moglie e ai due figli nelle strade di Napoli. “Sporco negro, vai a Villa Literno, a raccogliere i pomodori”: schiaffi violenti, a un giocatore che non è entrato mai veramente nel cuore dei tifosi, e che ora è attaccato anche per la sua pelle nera. “Ho avuto paura, certo. Per me è diventato un inferno, immaginatele voi le cose che mi dicono. So solo che le cattiverie sono tante. Che, fossi stato più giovane, sarei scappato subito da questa città…”.

La storia tra Rincon e il Napoli è finita prima ancora di cominciare. Tre gol soltanto dopo le mille promesse dell’ estate, una serie di delusioni, le incomprensioni con i due allenatori avuti dalla squadra, Guerini e Boskov, che però curiosamente l’ hanno mandato quasi sempre in campo, l’ intervento forse del Parma, comproprietario del giocatore, interessato a non svalutare un suo patrimonio: il colombiano s’ è presto isolato dalla squadra, che oggi gli esprime solidarietà, e dalla società, che avrebbe voluto cederlo a Natale. “Nessuno mi ha aiutato. Ho combattuto da solo la mia battaglia. All’ inizio, i compagni mi invitavano ad uscire con loro, io ho rifiutato spesso, per il mio carattere schivo. Poi nessuno l’ ha fatto più. E la società: lasciamo stare… Ho sentito con le mie orecchie un dirigente che diceva di me: non è un giocatore di calcio. Gli altri non mi hanno mai aiutato. A Napoli non ho amici, ne ho conosciuto solo uno che sta al di fuori del calcio, si chiama Armandino e fa il tassista: mi ha fatto capire tante cose, se vado avanti lo devo anche a lui…”. Rincon ha raccontato la sua amarezza con gli occhi lucidi. Era quasi in lacrime. A Napoli, dice, ha avuto paura già dopo le prime partite, i primi fischi, le prime delusioni.

In quei giorni ricordava spesso la morte del suo amico Escobar, nazionale colombiano, ucciso da un’ autorete. Napoli, per fortuna, non è Bogotà. “Non penso a questo, ora. Però ho avuto paura per la mia famiglia, perché mi hanno detto quelle cose? Mi avevano raccontato tante cose di questa città che non conosco: tutte belle o quasi. Invece Napoli mi ha cambiato”. Cambiato, ma come? L’ uomo e il giocatore, continua Rincon, sono un’ altra cosa rispetto a quello che stava in Colombia, e poi in Brasile, a vincere scudetti. “Ero apprezzato da tutti, mi dicevano che ero bravo, che sarei diventato un fuoriclasse. Non ho mai dovuto dimostrare a nessuno che sono un vero calciatore. Ma oggi a Napoli devo dimostrarlo tutte le settimane: non ai giornalisti, ma ai tifosi, ai dirigenti e anche ai compagni di squadra. Soltanto qui non hanno capito niente di me…”. E l’ uomo, soprattutto: “Ero allegro, affascinato dalla nuova esperienza italiana. La musica è la mia vita. In Brasile, quando segnavo un gol, ballavo per la gente. Ora non lo faccio più. Qualche settimana fa, dopo il gol segnato alla Reggiana, avrei voluto farlo ma non ho trovato il coraggio. Qui gioco per me stesso, e se faccio gol, lo faccio per me”. Salsa e merengue, i ritmi latini dell’ America del Sud: Rincon non li conosce più. “Però ho capito una cosa. Devo andare avanti da solo, ho imparato anche a fingere: un Rincon in campo, un altro fuori”. La squadra, ieri, si è schierata con lui. “Non ho parole”, dice Taglialatela. “Io invece non mi stupisco, avevo capito i problemi di Freddy”, aggiunge Agostini, che gli è stato vicino anche prima. E Cruz: “Il suo carattere purtroppo non l’ aiuta, è troppo introverso”. Domani forse i tifosi, quelli ufficiali, scenderanno in campo per respingere l’ infamia di razzismo. Rincon però non cambierà idea: “Napoli? Vorrei solo dimenticarla”.

Lo sfogo era su tutti i giornali. Il giorno dopo, il colombiano fu costretto a una mezza smentita, soprattutto sul razzismo. Ancora da Repubblica:

Stasera contro la Cremonese mi aspetto solo gli applausi dei tifosi del San Paolo’ . Freddy Rincon fa marcia indietro, precisa alcune sue dichiarazioni. Ha ancora paura il colombiano, che non vede l’ ora di lasciare Napoli e di finire questo campionato. ‘ Sì, sono stato insultato – ha ripetuto ieri mattina a Soccavo il giocatore – sono parole che mi hanno amareggiato moltissimo, che fanno male. Ma sono state pronunciate contro il calciatore, non contro il colore della mia pelle’ . Rincon non vuole che gli ultimi cinque mesi in azzurro siano un lungo inferno. E allora meglio correggere il tiro, ammorbidire i toni dello sfogo-denuncia di venerdì mattina. Era stato proprio Rincon l’ altro giorno a spiegare che ‘ se fossi stato più giovane, sarei scappato via dopo poche settimane’ . E a confermare che qualcuno gli aveva gridato: ‘ Negro, vai a raccogliere i pomodori a Villa Literno’ . Sulla vicenda è intervenuto anche Boskov: ‘ I compagni non lo hanno mai lasciato solo, Freddy è molto stimato all’ interno del gruppo’ .

Poi arrivò Napoli-Lazio, la rimonta, la doppietta. Ma a fine anno Freddy andò via.

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