Intervista al professor Maurizio Lupo uno degli organizzatori: «Lo sport si sta americanizzando, noi tifosi non vogliamo accettarlo. Succede anche a Napoli»
Il professore Maurizio Lupo è il coordinatore dell’Academic Football Lab, un gruppo interdisciplinare di ricerca composto da circa cinquanta ricercatori e studiosi appartenenti a varie istituzioni scientifiche italiane, tra cui il Consiglio Nazionale delle Ricerche e cinque Università: la Federico II di Napoli, l’Università di Torino, l’Università di Genova e due Università di Milano, l’Università Statale e l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Aflab – ci dice il Professor Lupo – ha l’obiettivo di «stimolare il dibattito scientifico e culturale sul calcio in Italia». Una tappa del percorso è Napoli, il prossimo 27 maggio. Al Mann si tiene un convegno, «Calcio e neoliberismo». Si discuterà dell’impatto che le politiche neoliberiste, prevalse in Occidente negli ultimi quarant’anni, hanno avuto sul mondo del calcio, esaminando, in particolare, le trasformazioni del mercato, degli assetti giuridici e di quelli geopolitici.
Ce lo racconta il Professor Lupo.
«Il tema del convegno di Napoli, il primo in presenza dopo la pandemia, è il rapporto tra calcio e neoliberismo: vale a dire, come il mondo del calcio è cambiato negli ultimi quarant’anni, quanto è stato influenzato dal paradigma neoliberista. Il calcio è ormai spinto verso un mercato globalizzato, c’è una sempre maggiore sudditanza verso le regole del mercato. I gruppi contano sempre meno, conta di più l’individuo, il telespettatore»
Questo cambiamento viene analizzato attraverso diverse chiavi di lettura.
«La trasformazione viene analizzata dal punto di vista dei mercati, a partire da quello dei calciatori, con la maggiore rilevanza dei procuratori, passando per quanto è successo nelle proprietà delle società, fino ad arrivare ai grandi temi della finanziarizzazione e della globalizzazione del calcio; dal punto di vista delle regole, cambiate per favorirne la spettacolarizzazione, per vendere il calcio più facilmente. Ne è un esempio la regola del portiere, che non può più prendere la palla con le mani, ma anche l’introduzione del Var: sono regole che mirano a vendere il calcio più facilmente, a renderlo più veloce, nell’ottica di trasformazione del tifoso in telespettatore; e poi dal punto di vista dei poteri: il calcio è diventato progressivamente un «soft-power», uno strumento spesso usato dagli Stati. In questo senso è emblematica l’assegnazione degli ultimi due Mondiali, quello del 2018 alla Russia col caso Gazprom e quello assegnato al Qatar. Non è una scelta casuale se si pensa al business legato al petrolio e al gas. I grandi gruppi finanziari hanno fatto irruzione nel calcio, basti pensare al Psg, e hanno favorito un cambiamento epocale. Non esiste più, o quasi più, la figura del presidente «mecenate», che investe in una squadra anche per tifo, ma piuttosto grandi gruppi che attraverso il calcio si garantiscono pubblicità»
Gli obiettivi della discussione seminariale.
«L’obiettivo è quello di iniziare a discutere di questi temi con un approccio ed una forma “meno da bar”, più complessa, più articolata. E poi farlo anche con le nuove generazioni. Il convegno si fa proprio perché gli interlocutori sono gli studenti. Prima di questa iniziativa, a Napoli sono stati fatti cinque seminari su questi temi per preparare i ragazzi. L’obiettivo del convegno – ma di tutto il progetto Aflab – è parlare di calcio in un modo meno scontato, un po’ come fa anche il Napolista, tenendo presente che il calcio è un ottimo modo per parlare dei grandi temi della nostra società, della società contemporanea. Il pallone è un fenomeno epocale. Come diceva Augé è un «fatto sociale totale», che deve essere studiato da tanti punti vista. E quindi dal punto di vista storico, statistico, antropologico, musicologico, sociologico. Di calcio può parlare un’economista da economista, uno statistico da statistico, uno studioso di letteratura, perfino un biologo, ognuno secondo l’approccio e gli strumenti di quella disciplina. I sociologi sono stati i primi a studiare il fenomeno degli ultras, basti pensare ad Alessandro Dal Lago, morto da poco, e alla sua analisi sui “rituali del calcio” in “Descrizione di una battaglia“. L’obiettivo che perseguiamo in generale, anche con la trilogia “Visioni di Gioco”, che tratta del rapporto tra calcio, istituzioni, mass media, mercati e storia, è far entrare in modo forte il calcio nell’accademia italiana, senza che si debba storcere il naso quando se ne parla. Il pallone non è una chiacchiera da bar: ci parla di noi, di quello che siamo, di come ci rapportiamo con la società, e di come essa sta cambiando, se in bene, se in male…»
La discussione, chiaramente, non si fermerà al 27…
«Questo primo convegno riguarda i rapporti tra il calcio e il liberismo. Ci saranno un secondo e un terzo convegno. Il secondo si terrà a Torino l’anno prossimo, nel 2023, e riguarderà i rapporti tra calcio e migrazioni, un altro tema molto complesso. Il terzo, con tutta probabilità a Firenze, sul calcio e le città. Poi con Aflab sono in fase di organizzazione altri appuntamenti: uno sul calcio e sulla storia economico-sociale, alla Bocconi, e uno in Cattolica sul racconto televisivo del calcio, su quanto è cambiato con la grande trasformazione. Non è che negli stadi non ci va più nessuno: in Italia, in realtà, ci va poca gente, ma all’estero sono sempre pieni. Il pubblico che guarda le partite di calcio fa parte del racconto televisivo del calcio. L’hanno dimostrato le partite senza pubblico in pandemia: una noia mortale. Ci teniamo moltissimo a questo appuntamento di Napoli, intanto perché Napoli è la mia città anche se vivo fuori da tanti anni. Ma anche perché nel gruppo ci sono molti napoletani, e tutti ci hanno tenuto ad aprire con Napoli, in una sede prestigiosa come il Mann, anche per dare un segnale di riscatto»
Il calcio non è solo uno sport – si legge nella presentazione del convegno – ma una lente attraverso cui possiamo analizzare la società in cui viviamo. A proposito di Napoli e del Napoli, allora, come legge questo rapporto?
«È una domanda abbastanza difficile. Secondo il mio punto di vista, il Napoli Calcio ha un atteggiamento abbastanza schizofrenico: da un lato è portatore di una cultura imprenditoriale che a Napoli non è che manca ma che certamente non è così diffusa; dall’altra, però, pare quasi che questa cultura imprenditoriale dia fastidio. Se la società si muove per fare profitti questa cosa dà fastidio, come se fosse immorale fare profitti col calcio. Non lo è: tutti fanno profitti col calcio. La società, da una parte, continua a essere gestita a conduzione familiare, con certe tracce di populismo come De Laurentiis che va a casa di Mertens, l’idolo delle folle; dall’altra parte, però, è sempre stata gestita da De Laurentiis secondo criteri manageriali, sbagliati o meno. Adl ha fatto tanti errori ma la sua è stata una macchina, che negli ultimi quindici anni ha funzionato abbastanza bene. Sì, per certi aspetti la SSC Napoli è lo specchio di una città schizofrenica, multiforme, con cadute e rialzi. Però ha avuto una sua continuità. Parlavo con un tifoso che segue il Napoli con me da oltre quarant’anni: entrambi non ricordavamo un periodo di stabilità così lungo. Quando ha vinto lo scudetto con Ferlaino, dopo pochi anni il Napoli è fallito o quasi. Non si dava mai l’idea di una cosa solida e che funziona. Oggi questo c’è, anche se forse a un livello meno competitivo di quanto i tifosi vorrebbero»
Ma quanto “contano”, oggi, i tifosi?
«Il convegno del 27 è organizzato sotto forma di dialoghi, ci sono coppie di relatori che discutono tra di loro, non c’è un punto d’arrivo o un punto di partenza, non ci sono punti cruciali o essenziali. Certamente si discuterà anche della trasformazione del tifoso in cliente. È una sorta di americanizzazione dello sport, un processo che sta avvenendo anche in Italia sebbene ci siano resistenze molto forti: sia da parte dei gruppi organizzati della tifoseria che, ovviamente, non lo vogliono, sia da parte dell’uomo comune – come il sottoscritto – che non si sente propriamente un cliente. Io guardo le partite perché mi diverto, certo, ma c’è una componente emotiva, come il tifo verso una squadra e il non tifo verso l’altra»
Parlare di calcio mentre c’è la pandemia e imperversa la guerra non è una contraddizione.
«Il convegno di venerdì è un appuntamento rischioso, perché lo facciamo in un momento particolare della storia europea. Siamo ancora dentro una pandemia, che rende molto difficili i contatti con le persone: un convegno in presenza ha le sue problematicità. Lo facciamo nel bel mezzo di una guerra, quando il dibattito pubblico è dominato da temi che col calcio non hanno apparentemente niente a che vedere. Eppure, guardare la trasformazione del calcio ai tempi del neo-liberismo aiuta a rendersi conto di quanto il calcio sia un buon modo per comprendere il funzionamento del meccanismo neoliberista stesso, ossia il dominio del mercato su tutto. L’abbiamo visto sulla pandemia, sulla questione dei vaccini; e poi nella guerra, sul tema dell’energia, sul grano. Ma quanto vogliamo che il mercato domini le nostre vite e quanto invece non lo vogliamo? Anche attraverso il calcio si può rispondere questa domanda. Tradotta in termini calcistici vuol dire: quanto vogliamo essere tifosi e quanto, invece, spettatori paganti?»