Dalla punizione al Dortmund al gol al Bernabeu, fino al tiraggiro contro il Belgio: i momenti chiave per il dieci che non ha mai abbandonato la comfort zone
«L’ultima volta è sacra» cantava Annalisa dal palco (sacro) di Sanremo l’anno scorso. Concetto intrigante, la «sacralità». Intrigante perché la dimensione sacrale è strettamente, intimamente collegata a quella religiosa. Può essere considerato «sacro» un luogo, ma anche un rito, perfino una persona. E Pasolini considerava il pallone quale l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo.
È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.
Chissà che rito ripeterà Lorenzo Insigne, domenica, con la sacralità che accompagna le ultime volte. Nel suo caso, l’ultima volta nello stadio che l’ha visto crescere. Oggi – a proposito di sacralità – è intitolato a Maradona. Quando lui ha cominciato a sognarlo, prima ancora che a giocarci, era il San Paolo. Chissà cosa gli passerà per la testa.
Lui, Insigne, «sacro» non è mai stato per davvero. Per quello stadio, per il nostro calcio, per tutto l’ambiente. Quel che è sacro non si tocca e invece Lorenzo, anche da capitano, è stato un calciatore profondamente divisivo. Qualcuno l’ha detestato ben oltre i suoi reali demeriti, altri l’hanno eccessivamente sopravvalutato. Sta di fatto che la sua carriera – e questa lunga militanza con la maglia del Napoli – è stata quasi sempre oggetto di elogi e critiche da montagne russe, che farebbero girare lo stomaco pure dopo casse di Maalox. Dal «miglior calciatore italiano in attività» al «dieci più scarso della storia della Nazionale» ci sono passati fiumi d’inchiostro, diversi sprazzi da campione, ma pure più di qualche domenica da dimenticare.
Nell’opinione di chi scrive il più grande torto della carriera di Insigne è non aver neanche provato a diventare, fino in fondo, un calciatore europeo. Un attaccante di questi tempi. Va detto che il fisico non lo ha di certo aiutato, perché nel calcio di oggi c’è sempre meno spazio per chi è alto poco più di un metro e sessanta e pesa cinquantanove kg. Quello di Haaland, di Mbappé e di Vinicius ma anche di Osimhen, di Leao e di Vlahovic sembra essere un altro sport, lo sport dell’atletismo. Di sicuro, però, chi è piccoletto abbisogna di meno spazio vitale e può adattarsi in quel che c’è. È una questione di testa, forse di intelligenza. Insigne questo tentativo non l’ha fatto, meno che per qualche mese. È sempre rimasto fedele alla sua mattonella, al suo spartito, alla sua comfort zone. Ed è probabilmente questo il motivo per cui nonostante delle qualità innegabilmente fuori dal comune un mercato europeo non ce l’ha mai avuto. Neanche con Raiola. La scelta di abbandonare il calcio che conta a poco più di trent’anni – un’età in cui i calciatori hanno ancora più di qualcosa da dire – ne è solo l’ultima prova.
Eppure, visto che il calcio è bugia, il paradosso è che sono proprio le notti europee ad aver raccontato che Insigne, poco europeo, poteva essere qualcosa che non è stato, almeno non interamente. Proprio quelle notti agli ordini degli allenatori che più hanno provato a renderlo un calciatore internazionale: Benitez, lavorando sulla sua testa; Ancelotti, lavorando sulla sua posizione in campo. Se volessimo indicare i cinque gol più iconici della carriera di Lorenzo, ci renderemmo conto che nessuno è stato realizzato nel campionato italiano. Che sono tutti europei. E che solo l’ultimo è «aggiro».
In rigoroso ordine cronologico:
1. La punizione al Borussia Dortmund con cui ha – involontariamente – rotto i denti al portiere dei tedeschi Langerak;
2. Il tiro da tre quarti campo al Bernabeu con cui, furbescamente, beffò il portiere del Real Madrid Keylor Navas;
3. La scivolata al novantesimo che permise al Napoli di Ancelotti di superare il Liverpool di Klopp che in quella stagione si sarebbe laureato campione d’Europa;
4. Lo scavetto ad Areola al Parco dei Principi, contro il Psg;
5. Uno dei gol più belli degli Europei, al Belgio, in una serata che sembrava averlo definitivamente consacrato.
Un gol da fuoriclasse.
Bravo Insigne. #Insigne #BelgiumItaly #Italia
Belgio – Italia 1-2 👏👏 pic.twitter.com/S0P3bilx9C— Luigi Giliberti (@LuigiGiliberti2) July 3, 2021
Questi gol, magnifici, raccontano quanto la carriera di Insigne sia stata un paradosso. In un equilibrio costantemente instabile tra la testa da «buon calciatore» e i colpi da campione che se l’avesse voluto davvero gli avrebbero permesso di cambiare la storia, innanzitutto la sua storia. Domenica saluta il San Paolo, tra qualche settimana il calcio che conta. Forse troppo presto. Sicuramente con una valigia di rimpianti non indifferente. D’altronde, se Lorenzo nonostante quelle giocate non ha mai raccolto consenso unanime – neanche nella sua tifoseria – e non ha mai stimolato nei suoi confronti un atteggiamento «sacrale», un motivo ci dovrà pure essere.