Scrivevo «Pocho» ovunque. Avevo quattro o cinque magliette, tutte sue. Le indossavo anche per andare a scuola e un giorno la professoressa mi fece una promessa
Era il 2011. Lavezzi era alla penultima o all’ultima stagione a Napoli. Sicuramente di lì a poco sarebbe andato al Paris Saint Germain, lo ricordo nitidamente. Era, occhio e croce, il mio secondo anno di liceo. Non avevo ancora compiuto sedici anni.
Per Lavezzi avevo una venerazione, non temevo di dirlo ai quattro venti. Lo dicevo a tutti, continuamente. Scrivevo «Pocho» da tutte le parti. Avevo quattro o cinque magliette, tutte sue. A volte avevo pure il cattivo gusto di mettermele per andare a scuola. La mia professoressa di geografia lo notò e mi fece una promessa: se mi fossi comportato bene per tutto l’anno scolastico mi avrebbe portato il suo autografo, l’autografo del Pocho. Avevano qualche amico in comune, mi disse. Io, che a quindici anni ero piuttosto allergico alle regole, la presi alla lettera. A pochi giorni dalla fine della scuola, quando manco me l’aspettavo più, fui accontentato. La professoressa entrò in classe con una scatola di cartone. Dentro c’era un quadretto con una foto di Lavezzi. La dedica c’era, in rosso: «a Francesco, mio grandissimo tifoso». Poi c’era l’autografo.
Ricordo che i miei amici erano invidiosissimi, dicevano che la dedica doveva essere certamente falsa, come quella di Maradona sul quadretto di Gennaro Scognamiglio/Nino D’Angelo in «Tifosi», il film del 99′, che avevamo visto pochi giorni prima tutti insieme. Lì c’era scritto «a Gennaro, con affetto, Diego Armando Maradona», qui c’era scritto «a Francesco, mio grandissimo tifoso», ma la sostanza era la stessa. Io però proprio non volevo sentire ragioni: ero convintissimo del contrario.
Sono nato nel 96′. Quando cominciai a seguire più o meno distrattamente il calcio, a sei o sette anni, il Napoli praticamente non esisteva. In Serie A simpatizzavo per il Milan. Iniziai a guardare con più coinvolgimento le partite degli azzurri quando giocavano in Serie B. Non mi creava problemi, non c’era conflitto d’interesse. Piano piano m’appassionai. Col ritorno in A dovetti fare una scelta che fosse una, non potevo tifare per due squadre. Ebbene, Lavezzi mi tolse ogni dubbio. Me lo tolse coi dribbling, con le corse dinoccolate a testa bassa, coi balletti dopo i gol. Me lo tolse con delle scorribande scostumate. Scostumate, sì. Irriverenti.
Lavezzi, insieme con Hamsik, è stato forse il primo calciatore di livello internazionale a giocare nel Napoli dopo tanti anni complicati. È grazie a loro (e a chi li ha portati a Napoli) se tanti ragazzi di oggi tifano per il Napoli e non più per le squadre a strisce. Sono arrivati in mezzo alle contestazioni dei soliti noti, sono diventati calciatori amatissimi dai più piccoli. È una cosa che viene sottovalutata, invece non si dovrebbe. Non si può non ricordarlo con piacere. Non significa necessariamente essere nostalgici. Oggi Lavezzi compie 37 anni, ha smesso di giocare da un po’. Quel quadretto un po’ scolorito è ancora lì. Non ho mai saputo se la firma fosse vera o falsa. E alla fin fine non m’importa manco più di tanto.