Intervista al sociologo che studia il calcio: «Il Ffp non esiste più. Infantino ha trasferito la residenza in Qatar, l’affare Mbappé ha solo confermato questa tendenza»
«Calcio e neoliberismo», questo venerdì, 27 maggio, al Mann. È il primo convegno dell’Academic Football Lab, un gruppo interdisciplinare di ricerca composto da circa cinquanta ricercatori e studiosi appartenenti a varie istituzioni scientifiche italiane, che ha lo scopo di stimolare il dibattito scientifico e culturale sul calcio in Italia.
Al centro della discussione del convegno di Napoli l’impatto che le politiche neoliberiste, prevalse in Occidente negli ultimi quaranta anni, hanno avuto sul mondo del calcio. Verranno poste in esame, in particolare, le trasformazioni del mercato, degli assetti giuridici e di quelli geopolitici.
Tra i dialoghi previsti nella mattinata di lavoro c’è quello di Alessandro Francesco Giudice con Pippo Russo, sociologo, saggista, giornalista e scrittore. Insegna all’Università degli Studi di Firenze e ha concentrato diversi dei suoi studi sull’economia parallela del calcio globale, sulla finanziarizzazione del calcio e sul ruolo dei procuratori.
L’abbiamo intervistato proprio in preparazione dell’evento di venerdì. Che arriva in un momento in cui il calciomercato è stato profondamente scosso dall’affaire Mbappé, dal rinnovo col Psg. È un fatto inevitabilmente legato a doppio filo all’analisi del convegno del Mann.
Io credo che sia un accordo contrattuale che segna la nuova epoca post-fair play finanziario. Si tratta di un accordo fra un calciatore e la sua società per un rinnovo che avviene a delle cifre esorbitanti, insostenibili per qualsiasi società di calcio, pure per il Psg se vogliamo continuare a considerarlo una società di calcio che, come tutte le altre, dovrebbe autofinanziarsi e non beneficiare di iniezioni di denaro a fondo perduto da una delle società più ricche al mondo. Non solo, però: è il più grande affare post-Ffp anche nella misura in cui la Uefa, in una fase di profonda debolezza dopo il progetto Superlega, ha trovato proprio nel Psg e in Al Khelaifi il principale sponsor, il principale appoggio. È un affare dal significato politico molto forte. C’è un anche un terzo messaggio possibile: il rinnovo tra Mbappé e il Psg arriva a sorpresa, perché dato sicuro partente, con sicuro approdo il Real Madrid ovvero il club che rimane ancora organico al progetto Superlega – sebbene oggi sia solo una sigla – col presidente che è il principale propulsore della Superlega stessa. Il rinnovo invece arriva col Psg, col club più di altri etichettato come “dalla parte della Uefa”, col Real penalizzato: è un messaggio non da poco.
Un messaggio non da poco, ma c’è da chiarire che in questa contesa non ci sono buoni contro cattivi.
In questa vicenda non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ci sono solo avidi che stanno su entrambe le parti della barricata. Il calcio, nonostante la crisi economica mondiale, continua a muoversi su cifre esorbitanti, sicuramente non sostenibili. Il convegno di venerdì parla di «calcio e neoliberismo», cioè di un mercato economico del calcio che per quanto possibile cerca di fare a meno delle regole, cerca di fare a meno dei vincoli, si fa forza della facilità di finanziarsi senza chiedersi quanto a lungo potrà sopportare quella dimensione economica-finanziaria e se sarà in grado di reggerla. Perché, prima o poi, i finanziamenti li devi ripagare. In questo momento il calcio mondiale è una delle poche isole felici che paiono non toccate dalla crisi economica generale: ovviamente è un’illusione ottica, non può non esserne toccato. Eppure il calcio continua a vivere un momento di straordinaria irresponsabilità. Questa è una fase in cui bisognerebbe cercare sostenibilità. Il mondo del calcio continua a credere che non sia necessario darsi delle regole.
Lo strappo di Florentino, con la Superlega, ha dunque finito col favorire “i nuovi ricchi”. Il rinnovo di Mbappé può essere letto come una sfida ai vecchi potenti del calcio, all’ancien régime. Una sfida che pare in qualche modo sostenuta dalla FIFA e dalla UEFA, e l’assegnazione dei Mondiali in Qatar ne è la prova. Insomma, siamo di fronte ad una radicale trasformazione geopolitica e a un’inversione dei rapporti di forza?
Questo spostamento geopolitico è già avvenuto. Era già avvenuto prima della pandemia. Infantino ha eletto residenza in Qatar, e questa è una mossa con cui il presidente della Fifa si prepara al tempo in cui non sarà più presidente della Fifa. Il Psg era uno dei club più critici verso il Ffp, issando l’argomento secondo cui si trattava di un sistema che eternava i rapporti economici e politici consolidati fino a quel momento. In pratica col Ffp, secondo il Psg, si dava per acquisito che i club ricchi già prima del Ffp rimanessero ricchi e che i club che esprimevano nuova ricchezza – come, appunto, il Psg – vedevano imporsi limiti che non erano stati imposti ai club dell’ancien régime. Il nuovo Ffp? De facto non esiste, è stato semplicemente cancellato. Questa vicenda segna uno stravolgimento dei rapporti politici nel calcio europeo e mondiale.
Qual è il ruolo della Uefa e di Ceferin in questa vicenda? Della Superlega si è detto tanto, ma era palese a tutti che dall’altra parte non ci fosse proprio “il calcio del popolo”…
Il calcio del popolo se esiste, esiste altrove, sicuramente il Psg non è il calcio del popolo, così come la Superlega non sarebbe stata quel meccanismo di redistribuzione della ricchezza che i club fondatori volevano spacciarci. Il calcio del popolo c’è dove ci sono tifoserie che si ribellano, in quel caso le tifoserie dei sei club inglesi che sono state determinanti nel far fallire il progetto e che hanno dimostrato, in qualche modo, cosa significa parlare di calcio del popolo. E però si tratta delle stesse tifoserie che hanno permesso che inìl calcio in questi anni divenisse uno spettacolo per ricchissimi, a uso e consumo delle televisioni.
Il calcio del popolo c’è solo in provincia e periferia. Non so se potremo mai riaverlo ai massimi livelli di Serie A e di Champions, ma di certo c’è che la posizione di Ceferin è una posizione pasticciata ed ipocrita. Aggiungo un’altra cosa: la Uefa non è uscita più forte dallo sfascio della Superlega. Ne è uscita apparente vincitrice ma è come se avesse fatto 0-0. La Superlega è fallita per demeriti propri, per l’azzardo troppo grande, ma la Uefa ha dimostrato di essere un soggetto incapace di analisi e di strategia. Ora vuole mostrare la faccia brutta ma non fa paura a nessuno, è un soggetto debolissimo.
Il calciomercato è cambiato radicalmente negli ultimi anni. Un elemento di novità sono questi mega-procuratori che gestiscono gli interessi di decine di atleti. Lei dedica diversi approfondimenti a Mendes, nelle ultime settimane è venuto a mancare Raiola. Spesso assistiamo a delle vere e proprie crociate contro i procuratori, come se svolgessero un’attività in qualche modo immorale. Ma è davvero così? È un fenomeno che andrebbe regolamentato e se sì, come?
Io ho studiato il fenomeno dei super agenti come Mendes e altri ma ho sempre ammonito di non fare generalizzazioni. Non bisogna arrivare a dire – come spesso si sente dire – che i procuratori sono il male o la rovina del calcio. Non è affatto così. Gli agenti sono professionisti che svolgono una funzione indispensabile nel calcio di oggi. Dalla Sentenza Bosman in poi calciatori sono obbligati a gestirsi la carriera e ci vuole qualcuno che sia in grado di farlo. La figura del procuratore, dunque, è una figura indispensabile. Poi bisogna distinguere fra chi fa il mestiere in modo onesto e corretto e chi lo fa in modo disonesto. E poi ci sono i monopolisti, che distorcono le regole del mercato e falsano la concorrenza, creando condizioni di mercato non concorrenziale. Perché? Perché si procacciano i calciatori migliori, spesso con metodi scorretti e a danno dei colleghi. Perché i loro calciatori, al tempo stesso, proprio perché tutelati sda agenti cosi forti, finiscono con l’essere privilegiati sul mercato del lavoro, integrando una fattispecie di concorrenza sleale sul mercato dei lavoratori del calcio. I calciatori coi super agenti un lavoro lo trovano sempre, altri hanno molte più difficoltà. Oggi i super agenti sono diventati la vera classe dominante del calcio mondiale: non stanno più a intermediare il mercato perché il mercato lo creano. E quando a creare il mercato è un soggetto esterno alle aziende che dovrebbero generare valore e mercato – in questo caso le società di calcio – siamo di fronte ad una condizione anomala e sicuramente non sana.
Le regole del mercato dunque oramai governano il mondo del calcio. È da leggere in questo senso la sostituzione de facto dei fondi d’investimento alla vecchia figura del presidente «mecenate»? Il Milan campione d’Italia ha vinto lo scudetto proprio nel momento di passaggio dal fondo Elliott alla società d’investimento RedBird, ma sembra che non se ne accorga nessuno. Venerdì ci troviamo a Napoli e al Napoli c’è De Laurentiis. Quanto potranno resistere secondo lei i De Laurentiis, i Cairo, i Lotito in un sistema del genere? Tra cinque o sei anni che Serie A dobbiamo aspettarci in questo senso?
Farei una precisazione: i mecenati nel calcio italiano non esistono più, almeno dai tempi di Massimo Moratti, l’ultimo. Tutti gli altri presidenti non sono mecenati, stento a vederli come mecenati. Alcuni di loro prendono lo stipendio dai loro club. Si tratta di presidenti che portano avanti la gestione dei club coi denari che il club produce. Questo è il “nuovo” modello italiano. Il mecenatismo non esiste da un pezzo e comunque si trattava di un sistema insano, fragilissimo, perché nel momento in cui il mecenate si stufa e se ne va l’azienda è fallita.
Semmai, dovremmo dire che nel passaggio tra i mecenati e i fondi, che stanno arrivando, non abbiamo strutturato una classe dirigente del calcio sufficientemente illuminata per creare strutture solide di club. Sono pochi club in Italia ad essere sani dal punto di vista aziendale, e non credo che esistano club in Italia che siano in grado di tenersi in piedi senza il denaro dei diritti televisivi. Questo è stato il grande deficit. Non è un bene che stiano arrivando i fondi, perché i fondi speculano. E non è detto che tutti i fondi siano illuminati come Elliot, che ha dato al Milan un modello sano, un modello distante dall’idea di scialacquare denaro.
Dicevo: i fondi devono fare profitti, speculare sugli asset che acquistano. Ora arrivano e non abbiamo gli anticorpi per scongiurare la prospettiva che tutto ciò succeda, perché negli anni in cui il calcio italiano è stato il più ricco di tutti non ha strutturato classe dirigente né club virtuosi, capaci di produrre ricchezza. L’arrivo dei fondi è inevitabile, e senza c’è la bancarotta generalizzata.
Mercati, regole e poteri. Lei descrive in un’intervista di qualche tempo fa il pallone come un “incubatore finanziario”. Cosa significa?
Incubatore finanziario proprio nella misura in cui il calcio diventa oggetto di interesse di investitori esterni, come i fondi. Io mi riferivo all’economia delle terze parti, sette anni fa messa definitivamente fuori legge dalla Fifa ma che continua ad essere viva e vegeta, soprattutto in Sudamerica. Parlare di «incubatore finanziario» vuol dire prefigurare una situazione in cui il calcio è un vettore in cui il denaro viene iniettato dall’esterno non per produrre risultati sportivi o valore sociale, ma soltanto per essere sviluppato, per aumentare. Denaro che produce altro denaro. Nel momento in cui verrà prodotto altro denaro, verrà riportato fuori e redistribuito a quelli che l’avevano iniettato. Badate: l’arrivo dei fondi vuol dire esattamente questo. I fondi di investimento non vengono a generare valore sportivo, vengono a investire denaro che deve fruttare e poi essere distribuito agli investitori. Se poi ci sono i risultati sportivi è un di più, ma non è il fine principale.