Intervista a CorSera e Repubblica: «L’ho preso in tempo. Mentre mi bombardavano di radiazioni guardavo un quadro di Adelchi-Riccardo Mantovani»
Domani Vittorio Sgarbi compirà 70 anni. Il critico d’arte ha rilasciato due interviste, una al Corriere della Sera ed una a Repubblica. In entrambe si definisce un mite, nonostante le tante risse tv in cui, negli anni, si è trovato coinvolto. L’ultima, in settimana, con Mughini, al Maurizio Costanzo Show.
«Sono mite. Posso fare una scenata se trovo un errore su un catalogo, ma si spiega con la formula che mia madre definiva dei cinque minuti: la giornata è fatta di 24 ore; per 23 ore e 55 sei normale, ma sugli altri cinque minuti si costruisce la tua leggenda».
Delle risse, però, si pente sempre, ammette.
«Sempre, subito dopo. Come ogni buon coccodrillo. Dopo, non per finta, dico: potevo risparmiarmelo. Ma la verità è che non potevo: era un flusso inarrestabile».
La violenza verbale che spesso lo contraddistingue gli viene dallo zio Bruno.
«Questa è conseguenza dell’ispirazione di zio Bruno, fratello di mamma, grandissimo letterato. La sera, si parlava di politica e zio primeggiava sempre, aveva un tono polemico, argomenti che mi sembravano giusti. Fu una specie di transfert».
Nell’intervista a Repubblica racconta del suo cancro alla prostata.
«Certe notti combatto con un residuo del cancro alla prostata, che ho sconfitto. Spesso devo correre alla toilette».
Racconta di quando ha scoperto la malattia:
«Durante il lockdown facevo fondo ad Asiago. Mi si sono gonfiate le caviglie. Il medico, l’ex parlamentare Mario Pepe, quando ha visto l’esito delle analisi mi ha abbracciato: “Hai un tumore, ma non vedo metastasi”. Ho fatto quaranta radiazioni, al Sant’Elena a Roma, seguito dal professor Giuseppe Sanguineti. Ho fatto portare un quadro di Adelchi-Riccardo Mantovani e l’ho appeso al soffitto: lo guardavo mentre mi bombardavano».
Ma già dal 2015 aveva smesso di ritenersi invincibile.
«Ho smesso di ritenermi invincibile. Già nel 2015 avevo rischiato di morire. Ero a Brescia, e di notte aprirono le chiese solo per me. Poi, sfinito, dissi all’autista di portarmi a Firenze. Lungo il tragitto cominciai a sentire un gran peso sul cuore, dopo Mantova gli chiesi di uscire dall’autostrada e di raggiungere l’ospedale più vicino, a Modena. Svegliarono il primario e mi operarono. “Ancora mezz’ora e lei sarebbe morto”, mi disse il dottor Cappello. “Sarei morto a Roncobilaccio, non mi sembrava il caso”, risposi».