Al CorSera: «Quando nacque mia figlia Elettra pensai che neanche in quello ero riuscito ad essere come tutti gli altri. Mi sono sentito sempre diverso»
Il Corriere della Sera intervista il cantautore Eugenio Finardi. Racconta la sua vita, tra Milano e l’America.
«Sono nato a Milano in via San Vittore alla clinica San Giuseppe, ma mi hanno cresciuto da americano. Negli Stati Uniti ho però scoperto che gli americani mi stavano sulle balle. Mia madre Eloise Degenring era americana, mio padre, bergamasco, dirigente industriale anticomunista viscerale, la portò in America. Ma io restai qua. L’inglese è la mia lingua madre. L’italiano la mia lingua padre. Con i miei tre figli parlo italiano e inglese, la piccola parla cinque lingue e sta laureandosi in cinese».
La musica?
«Ci sono letteralmente nato dentro. Mia madre era una cantante lirica. Bravissima. Ma era albina e ipovedente e non riusciva, per via delle luci, a vedere gli attacchi del direttore. Così faceva recital, cantava alla radio, ma non in teatro».
Uno dei suoi sponsor, in cambito musicale, è stata Mara Maionchi.
«Mi ha portato alla Numero 1, la casa discografica di Mogol e Battisti. Una delle sue prime scoperte. Sono stato a casa di Battisti al Dosso. Io avevo portato dall’America un sacco di dischi da noi introvabili come i Weather Report, Bob Marley. Battisti era timido, ma molto curioso. Mentre io ero esuberante. Ricordo una stanza grande, quasi vuota, con enorme divano e grandi casse di amplificazione. Mi piacciono le canzoni di Battisti, i testi di Mogol».
Lo ha aiutato anche Ivan Graziani.
«Ivan era generosissimo. C’era un locale in Brera che faceva musica dal vivo. Ivan aveva creato una sorta di “chitarra-bar”. Girava per i tavoli, faceva canzoni a richiesta. Lui preferiva i Beatles. E aveva la timbrica giusta. Prendeva ventimila lire a sera, che era tantissimo all’epoca. Ogni tanto però gli chiedevano anche pezzi dei Rolling Stones. Mi offrì metà del suo stipendio affinché lo supportassi sul rock blues. Condividemmo lo stage e la cassa. Incredibile».
Da molto tempo è uscito dal mercato della musica.
«Da 20 anni non sono più nel business. Nel 2002 sono stato liberato dalla Warner. Da allora solo progetti speciali. Uno dei momenti topici della mia vita: ero a New York a registrare l’album Occhi, l’unico disco che ho realizzato all’estero. Abitavo a casa dei miei genitori mentre loro svernavano in Florida e andai a trovare Ruby Marchand, pezzo grosso della Warner. Lei ascoltò i miei lavori e alla fine disse: “Non sei abbastanza italiano per vendere nel mondo. Noi abbiamo bisogno di artisti come Zucchero o Ramazzotti».
Parla di sua figlia Elettra. Ha la sindrome di Down, oggi ha 40 anni.
«Anche questo è un dolore che non passa mai».
Per molti anni, ogni anno, il giorno del compleanno della figlia, Finardi lo ricordava con un messaggio a colleghi e giornalisti, e dava loro il numero di Elettra per farle gli auguri. Da qualche anno non lo fa più.
«È invecchiata. Non voleva più. Vive in una casa famiglia. Adesso non ha più il telefono, le crea ansia. Il primo pensiero quando è nata e ho saputo che era Down fu: “Neanche in questo sono riuscito ad essere come tutti gli altri”. Io mi sono sempre sentito diverso. E lo ero. Anche grazie a una madre protestante».
Socializza con colleghi?
«Sì con Alberto Camerini. In passato con Demetrio, Fabrizio De André, Battiato. Baglioni, dolce e sensibile, si informava sempre su Elettra. La chiamava al telefono. Cortese, attento anche nei dettagli. Gianna Nannini e poi Ligabue che mi ha invitato al prossimo concerto al Campovolo».