Al CorSport: «Ai miei tempi non c’era sicurezza. In Finlandia transitavamo sopra i binari della ferrovia, talmente vicino alla folla da poter spegnere le loro sigarette»

Il Corriere dello Sport intervista l’ex pilota di motociclismo Giacomo Agostini, 15 volte campione del mondo, vincitore di 122 Gran Premi. Oggi ha 80 anni. Racconta il Motomondiale dei suoi tempi.
«Iniziai con la tuta nera che pesava un chilo, e il primo sponsor fu uno sticker incollato sulla tuta. Poi arrivò l’evoluzione, sotto forma di maggiore sicurezza delle piste e dell’equipaggiamento, penso a tute che oggi pesano 8-9 chili e ai caschi integrali. E poi gli sponsor. Certo, gli incidenti gravi possono accadere comunque, ma c’è stato un passo avanti enorme per la sicurezza».
Oggi c’è troppa tecnologia.
«Con questa tecnologia basta un piccolo problema e un pilota passa dal successo in una corsa al nono posto nella successiva. I tanti vincitori differenti piacciono, ma noi vogliamo vedere il protagonista che fa cose che ad altri non riescono. Il Cassius Clay, l’Agostini, l’Eddie Merckx, il Maradona, il Valentino Rossi, il Rafa Nadal della situazione, e io non credo che chi vince tanto finisca per stancare. Chi vince tanto attira il pubblico e lo fa innamorare, pensiamo all’affetto della gente per Rossi fino agli ultimi anni in cui pure non vinceva più. Al motociclismo serve il grande personaggio, non è giusto che chi investe tanto per avere il pilota migliore, poi possa perdere una gara per via di una gomma che non funziona o un problema di elettronica. Toglierei un po’ di elettronica e di potenza, non sono i 280 cavalli a garantire lo show, lo spettacolo lo davo anch’io con 130 cavalli».
Parla di Marc Marquez.
«Mi dispiace che ora sia fermo, purtroppo è caduto tante volte. Un giorno, infatti, gli ho detto: a cadere come fai tu, ai miei tempi saresti morto cinque volte. Ma lui è così, dà sempre il 100%, spero che tornerà come prima, Marc è il pilota che ti fa alzare dalla sedia. E personalmente mi piace, lui e Quartararo sono i due piloti che anche prima del via di un GP, in griglia, trovano il modo di salutarmi».
Ancora ricordi e paragoni:
«Ciò che mi dispiaceva erano ovviamente gli incidenti gravi così frequenti. La sicurezza è effettivamente differente, ricordo che a Imatra, in Finlandia, transitavamo sopra i binari della ferrovia e passavo così vicino alle persone da poter spegnere le sigarette di chi fumava. L’ambiente era molto più familiare, nel mio team eravamo in 7-8, ed era uno dei più grandi, oggi sono 25. Era tutto più umano, più semplice. Oggi ci sono i camerieri nelle hospitality, ai tempi ci portavamo il cibo da casa. Ricordo che tante volte mi cambiavo in auto o sul nostro camion».
Ha qualche rimpianto?
«Sarei vigliacco a dire di sì: ho avuto tutto dallo sport che ho amato e in cui debuttai a undici anni, ero così piccolo che per scendere dalla Guzzi Airone 250 mi servì l’aiuto di un Carabiniere che per fortuna non mi chiese i documenti, altrimenti la mia carriera sarebbe finita subito. Mi manca il titolo del 1965 in 500 al debutto con la MV, per un banale guasto in Giappone. E poi il titolo 500 del 1974, ma quell’anno vinsi comunque a Daytona al debutto sulla Yamaha, risposi a Kenny Roberts che mi ‘accolse’ dicendo che non ero campione del mondo perché il mondo era l’America. A fine gara, dopo il mio successo, mi disse che non potevo essere umano. E l’anno dopo diventai comunque il primo a vincere in 500 con una moto giapponese due tempi».