L’articolo riproposto da Tennis Magazine Italia: era più bello e più educato. Solomon insultava, lui non faceva una piega agli errori arbitrali
Tennismagazine ha riproposto l’articolo che Gianni Clerici scrisse per Il tennis italiano sulla vittoria di Adriano Panatta al Roland Garros del 1976. Ve lo riproponiamo. Eppure tra i tennisti italiani e Gianni Clerici il rapporto è stato sempre tormentato, come da dichiarazioni dello stesso Panatta e di Bertolucci: «non ci siamo mai amati».
Ora che l’entusiasmo, le bevande, i balli sono sfumati, questo grande successo di Adriano Panatta va preso con le pinze. Buttare via, per prima cosa, i giornali francesi, con i loro titoli lusinghieri all’eccesso: sappiamo benissimo che sono capaci, i nostri amici, di scoprire Italo Svevo, per poi passare disinvoltamente a Carlo Coccioli! Non credere, quindi, che Adriano abbia passato la Manica con maggior facilità delle legioni sue antenate e, dopo aver brucato court, per una sola settimana, piombi a devastare l’erba di Wimbledon. Combatte, insomma, gli eccessi.
Tra il povero direttore tecnico Belardinelli, che sconsigliava la trasferta allo Stadio Roland Garros, dopo la faticaccia di Roma, i miei amici dell’Equipe, che già vedono il Duca di Kent consegnare al Campione d’Italia l’argentea coppa dell’All England Club sta, in mezzo, il buon senso. Adriano ha vinto il più grande Torneo del mondo sulla terra rossa, diversa assai dalla terra americana, per composizione geologica e per l’uso che ne fanno i costruttori. L’ha vinto due settimane dopo i Campionati Internazionali di Roma, impresa riuscita soltanto a otto grandi, l’ultimo dei quali fu Bjorn Borg.
Vincere questi due Tornei è qualcosa di più che vestire la maglia gialla del Tour su quella rosa del Giro. La mischia, nel tennis, è molto più fitta, e i rissanti giungono ormai da tutto il mondo. Per trovare termini di confronto atletici, bisogna spingersi nei sacri recinti olimpici e immaginare una medaglia d’oro nei 5.000 metri doppiata da un successo nei 10.000. La fatica, l’accumulo di tossine, l’avvelenamento ci fanno tuttavia ritornare al confronto (quanto dissimile esteticamente!) con il ciclismo. In tre settimane e mezzo, senza contare i doppi, Panatta ha giocato 14 singolar, dei quali 10 al meglio dei 5 set. Ha salvato miracolosamente al primo turno a Roma il matchpoint, e uno solo ma tanto pericoloso da richiedere un disperato tuffo, a Parigi. Vien da stupirsi a non aver seguito tutti questi incontri, che Panatta sia arrivato in fondo conservando, se non proprio il ritmo d’avvio, un’ammirevole lucidità.
Parlando ad Adriano di tutti i punti difficili che gli era accaduto di giocare, chiedevo che cosa mai ci fosse di nuovo, nel suo atteggiamento. “Semplicemente, il gioco” rispondeva, con una naturalezza che sottolinea il carattere profondo, non solo sportivo, della sua accettazione. Si sa che le nostre piccole conquiste interiori non sono, purtroppo, definitive. Domenica, verso la fine del quarto set, piegato dalla fatica, Adriano si ribellava nuovamente contro se stesso. “Basta, basta, adesso attacco, vado avanti”, lo sentivo mormorare, dai bordi. Era un attimo. Gli bastava respirare un paio di volte, raggiungere il tie-break, subire un giudizio incredibilmente errato, per ritrovarsi. Camminava lentamente verso la rete, dava un’occhiata a quel segno nettissimo, lungo un palmo, che aveva sbiancato la riga. Accertatosi dello sbaglio del giudice, scuoteva appena la testa, tornava verso la linea di fondo, pronto a ricominciare.
Quanto diverso era stato l’atteggiamento di Solly Solomon! Al giudice di foot-fault che, ad un certo punto, aveva dovuto penalizzare quel suo piedino ripetutamente posato sulla linea, Solly aveva sputato gli insulti più sanguinosi, per terminare con un proiettile, molto vicino al viso del poveraccio. E, per tutta la finale, così come già a Roma, aveva imprecato alle sue divinità, si era ribellato a tutto e tutti. Anche per questo, e non soltanto perché è più bello, la maggior parte della gente si era schierata con Panatta. Lo sport è anche educazione, e cioè accettazione delle regole comuni: prima fra tutte, quella di saper perdere. Scagliando palle e bestemmia, Solly Solomon si rifiutava alle regole del gioco, rilevava la sua piccola educazione di piccolissimo borghese americano, tanto diverso, ahilui, dal popolano Panatta. Uscendo dal popolo, diventare signori è facilissimo, sol che un poco di fortuna assista le qualità native. Dubito molto che, partendo dal “background” di Solly, possa accadere altrettanto. E giacchè si parla di stile, lasciatemi ripetere quel santo luogo comune che lo stile è l’uomo.
Adriano gioca lo splendido tennis classico, a tutto campo, che il grande Bill Tilden perfezionò negli Anni Venti. Solly Solomon gioca un tennis infinitamente più primitivo, tipico dei pionieri nati sul cemento, e lo mescola all’ultima invenzione dell’anticlassicismo, cioè il rovescio a due mani. È evidente che, ad un tipetto sul metro e 70, sui 70 chili, io sarò l’ultimo a rimproverare uno stile che rese famosi tantissimi tennisti-piuma, da Little Bill Johnston a Beppe Merlo. Mi riservo, però, la libertà di scegliere quel che sento più vicino alle mie convinzioni, ai miei gusti. Confesso serenamente di aver fatto poche volte altrettanto tifo, nella mia vita. Per il vecchio Torneo che si gioca di fronte agli immobili, vecchissimi castagni, io non ho meno rispetto che amore. Sarebbe stato un autentico insulto che l’avesse vinto un tipo alla Solomon. Anche a Versailles, dopo tutto, si accolgono mandrie di turisti assai simili a Solly, ma nessuno pensa minimamente di lasciarli dormire senza togliersi le scarpe, negli appartamenti reali.