Sono scomparsi i dribbling e la fantasia. La ricerca della perfezione in campo (compresa la costruzione da dietro) ha snaturato il gioco
Le parole di Spalletti sul “calcio del futuro”, fatto di costruzione dal basso e portieri che giocano fuori dalla loro area di rigore, non suonano di certo rivoluzionarie. Da anni, oramai, il calcio è soprattutto questa roba qui.
Fa benissimo Massimiliano Gallo a ricordare che un lancio lungo non è reato e che la Champions League è stata sollevata da un allenatore che alla logica del tiki taka non si è mai piegato, ma è innegabile che il vento soffi esattamente nella direzione indicata da Spalletti.
È una direzione, però, che non mi piace e che, soprattutto, sembra non piacere al pubblico, visto il calo di spettatori e di fatturato che, dove più dove meno, sembra essere oramai la costante di quello che una volta era lo sport più bello e popolare del mondo.
Fifa e Uefa studiano e provano continuamente nuove formule, nuove competizioni e nuove regole; le grandi del calcio europeo fantasticano di super leghe e affini, si parla di tempo effettivo e il fuorigioco cambia ogni sei mesi, ma la verità è che il calcio interessa sempre meno i ragazzi, che il suo pubblico invecchia e diminuisce rapidamente.
C’entra con tutto questo la mania di iniziare l’azione con decine di passaggetti tra portiere e difensore?
Secondo me sì.
Il fascino del calcio è storicamente dovuto, a mio avviso, sostanzialmente alla sua imperfezione.
A differenza di tutti gli altri sport, il calcio si gioca all’aperto, con i piedi e su una superficie irregolare. Tre aspetti che impediscono il raggiungimento della “perfezione” del gesto tecnico.
Nella pallacanestro i tiri da tre punti, che una volta rappresentavano l’eccezione rispetto al gioco da due punti, sono oramai diventati la norma. Già nel 2017/18 gli Houston Rockets sono stati la prima squadra di sempre dell’NBA a concludere una stagione avendo effettuato più tiri da tre che da due. Merito degli allenamenti sempre più sofisticati, certo, e del fatto che si tratta di un gesto più o meno sempre identico, compiuto sempre nelle stesse condizioni, con un basso numero di incognite. Lo stesso discorso vale per i gesti tecnici di altri sport, come ad esempio i servizi sempre più precisi e devastanti del tennis e della pallavolo (e basta guardare le statistiche degli aces per rendersene conto).
Tutto ciò non riguarda il calcio dove il miglior tiratore di punizioni del mondo ne segna (se va bene) una ogni dieci tentativi, dove i fuoriclasse migliori possono sbagliare un rigore o un gol a porta vuota, dove i portieri più formidabili possono mancare una presa e i difensori più precisi possono infilare un clamoroso autogol. Di converso, il calcio è ancora (sempre meno) l’unico sport dove una squadra di serie C può vincere contro una squadra di serie A, dove un difensore dai “piedi quadrati” può realizzare un gol al volo da trenta metri, dove un rimpallo, un rimbalzo sporco del pallone, la pioggia o il campo pesante (e fino a qualche tempo fa anche una svista arbitrale) possono influenzare o addirittura ribaltare il risultato di un match.
Tutto ciò ha rappresentato, per oltre un centinaio d’anni, il segreto del successo del calcio: l’imperfezione autorizza a sognare e tifare cos’è se non sperare e sognare l’impresa della propria squadra, la vittoria contro il pronostico?
Negli ultimi due decenni, tuttavia, il calcio (inteso nell’accezione di sistema calcio, fatto di squadre, leghe e federazioni) sembra aver dimenticato la propria essenza, la ricetta che lo ha reso popolare. C’è stato un movimento costante dalla imperfezione verso la perfezione, dall’incognita verso la prevedibilità, dalla fantasia verso l’applicazione rigida di protocolli di gioco standardizzati.
Il motivo è fin troppo semplice da individuare e riguarda l’ingente quantità di capitali investiti. Chi investe, si sa, vuole un ritorno e tanto più sarà portato ad investire quanto più certi e prevedibili saranno gli introiti.
Fino ad un certo punto questa ideologica ricerca di perfezione ha riguardato le componenti societarie, gli staff, lo spacchettamento dello spettacolo per aumentarne la fruizione televisiva, la ricerca di nuovo pubblico nei continenti storicamente meno appassionati. Poi, da un certo punto in poi, si è cercata la perfezione sul campo. Il gioco si è snaturato ed è sopraggiunto un aspetto che nessuno aveva preso in considerazione: la noia.
Passaggi più corti, meno dribbling, più possesso palla, meno invenzioni, più fisicità, meno imprevedibilità, questo è il “calcio del futuro” di cui parla Spalletti e che viene praticato oramai dal 90% e oltre delle squadre e questo è esattamente il motivo per cui sono diventate noiose il 90% delle partite (nel campionato italiano forse anche il 95%).
Ai giocatori viene fatto il lavaggio del cervello, viene chiesto di non improvvisare, di non avventurarsi in azioni imprevedibili: non spazzare, non dribblare, passa al compagno più vicino, non lanciare lungo. Tutto questo a prescindere da tutto: dagli avversari, dal risultato, dal tempo che manca al termine della partita.
Nel febbraio di quest’anno fece scalpore la scelta di Ounas di battere, al 94° contro l’Inter, una punizione passando al compagno più vicino, invece di metterla al centro e provare a vincere la partita. Se ne discusse molto, anche troppo, ma negli ultimi anni ne abbiamo visti a centinaia di ritmi compassati quando c’era da recuperare, di passaggi indietro invece di cross al centro. È questo il “calcio del futuro” di cui parla anche Spalletti, uno sport dove la geometria prevale sulla fantasia e passa per i piedi del portiere. Uno sport, ahinoi, sempre più noioso.