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Il marito della Vitti: «Non sono uscito di casa per vent’anni per difendere il suo desiderio di riservatezza»

Roberto Rossi al CorSera: «Ci conoscemmo sul set. Io avevo 25 anni e facevo il macchinista, lei ne aveva sedici più di me ed era la star. Non ci siamo mai lasciati».

Il marito della Vitti: «Non sono uscito di casa per vent’anni per difendere il suo desiderio di riservatezza»

Sul Corriere della Sera walter Veltroni intervista Roberto Russo, marito di Monica Vitti, scomparsa nel febbraio scorso. Sono stati insieme 40 anni. Si conobbero sul set di «Teresa la ladra» di Carlo Palma, nel 1973.

«Avevo 25 anni, lei sedici più di me. Lei era l’attrice protagonista, io battevo il ciak. Insomma ero un macchinista. Da quando l’ho vista non ho capito più nulla. Ma io ero il ciakkista e lei la star. Lei era fidanzata. Non avevo mai visto una donna di quella intelligenza, di quella simpatia, di quella bellezza. Lei era come i film che ha fatto: sapeva far ridere, far piangere, far pensare. La nostra storia, durata quasi mezzo secolo, è stata l’avventura di una simbiosi».

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«Tutto è cominciato su quel set. A un certo punto io, che non ce la facevo a vederla e non poterle dire che la amavo, ho abbandonato le riprese. Ma dopo qualche giorno mi hanno richiamato per dirmi che volevano tornassi sul set. Ho capito in quel momento, il più bello della mia vita, che era stata Monica a volermi vicino a lei».

Da allora, non si sono più separati.

«Non ci siamo mai lasciati un secondo. Pensa che in cinquant’anni io ho dormito lontano da lei solo una notte, per un premio che dovevo ritirare. Monica ed io non abbiamo mai chiuso occhio quella notte».

La Vitti soffriva di una malattia degenerativa: «demenza a corpi di Lewy». Quando il marito si accorse che qualcosa non andava la portò dai medici, ma lei riuscì a nascondere il problema.

«Monica era una grande attrice, non dimenticarlo. Lei mascherava i vuoti che si andavano moltiplicando nella sua mente. Era bravissima. Faceva leva sul fatto che, in fondo, un po’ smemorata era sempre stata. Sapeva tutti i copioni a memoria, ma magari non ricordava dove aveva lasciato le chiavi di casa. È sempre stata così. Ma la nostra vita in simbiosi faceva sì che ogni piccolo slittamento dell’uno fosse avvertito dall’altro. Io mi ero accorto che qualcosa non andava come sempre. Che la memoria la stava abbandonando, lentamente ma, per me, visibilmente. La portai da un famoso medico. Lei sfoderò le sue doti di camuffamento e alla fine questo luminare mi investì dicendo
che Monica stava benissimo e che ero io a dovermi far visitare. Un’altra volta la portai a fare analisi in clinica e lei si arrabbiò. Mi chiese come mi era venuto in mente, che lei stava benissimo e le analisi lo avevano confermato. Io mi scusai e le dissi che lo avevo fatto per togliermi la paura».

Ha difeso il suo diritto alla riservatezza fino all’ultimo momento della sua vita.

«Per venti anni. Venti anni qui con lei. Per non farla mai stare sola, per non farle mai mancare nulla. Venti anni senza mai uscire di casa se non per la spesa o per fare due passi qui intorno. Ho difeso Monica, il suo desiderio di riservatezza fino alla fine, ho cercato di farla ridere quando poteva, e di tenerle sempre la mano. E lo rifarei, rifarei ogni giorno di questi venti anni che non separo dagli altri trenta. Sono stati tutti meravigliosi, perché sono stati tutti con lei».

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