Kim e Kvara (e gli altri) sono esattamente i tentativi che deve fare un club come il Napoli per poter sopravvivere. De Laurentiis ha abbandonato il modello ultra-conservativo
Il Milan
Rafael Leão, Ismaël Bennacer, Rade Krunić, Fikayo Tomori, Pierre Kalulu, Sandro Tonali, Mike Maignan, Brahim Díaz, Fodé Ballo-Touré, Theo Hernández. Questi sono alcuni giocatori del Milan arrivati nella squadra rossonera nell’arco di tempo che val dal 2019 a oggi. Molti di loro sono stati decisivi per lo scudetto, altri sono stati marginali nelle rotazioni di Pioli, altri ancora non hanno lasciato traccia. Alcuni di questi calciatori – Theo Hernández e Rafa Leão su tutti – erano considerati delle grandi promesse a livello internazionale e in effetti sono sbocciati, sono diventati dei calciatori di primo o primissimo piano; altri, tra cui Maignan, Bennacer, Kalulu, Tonali e Tomori hanno fatto dei grandissimi progressi e ora possono ambire a raggiungere la riconoscibilità dei loro compagni più forti. Anzi, forse l’hanno già fatto: in questo senso, basta pensare all’impatto di Maignan, Tomori e Tonali sui risultati che hanno portato il Milan a vincere il titolo.
Ciò che accomuna tutti questi calciatori, in ogni caso, è un’età piuttosto bassa. E il fatto che siano arrivati al Milan dopo esperienze – buone o meno buone, non importa – con squadre teoricamente inferiori a quella rossonera. Sono squadre come Lille, Empoli, Brescia. Le eccezioni ci sono ma non spostano il senso della faccenda: Theo Hernández era di proprietà del Real Madrid, ma nell’annata 2018/2019 era stato in prestito alla Real Sociedad; anche Brahim Díaz apparteneva al Real Madrid, eppure con le Merengues aveva accumulato 21 presenze totali in due stagioni. Insomma, anche loro sono venuti al Milan per affermarsi, per lanciare – anzi: per rilanciare – la propria carriera.
Cosa vuol dire tenere attivo il mercato
Tutto questo per raccontare quella che è un’evidenza storica: ecco cosa significa avere il mercato aperto. Ecco cosa significa saper scegliere i calciatori giusti, inserirli in un contesto funzionale e funzionante. Infine, cosa più importante, ecco cosa significa non aver paura di cambiare. Dal 2019 a oggi, infatti, il Milan ha anche perso alcuni calciatori importantissimi: Donnarumma e Cahlanoglu, esattamente un anno fa, sono andati via a parametro zero; Locatelli, Piatek, André Silva e Lucas Paquetá sono stati ceduti a titolo oneroso.
Ci sono state contestazioni da parte dei tifosi, ma da parte della società non c’è stato nessun dramma, nessun problema. E, soprattutto, tutto è stato vissuto come parte di una strategia chiara. Chi parlava di ridimensionamento, si è dovuto ricredere: per sostituire coloro che sono andati via, Maldini e Massara hanno scelto e comprato dei calciatori in linea con l’identità imposta dalla società. Ripetiamo: giovani da valorizzare, ragazzi affamati in cerca di affermazione. E non solo: si trattava e si tratta di elementi giusti per il gioco di Pioli. Di ragazzi che hanno dato ad alcuni grandi vecchi dello spogliatoio – Kjaer, Giroud, Ibrahimovic – la possibilità di vincere uno scudetto inatteso. Per non dire insperato.
Il contrario del Napoli
Insomma, il Milan ha vinto un campionato – e nella prima stagione intera di Pioli ha conquistato una qualificazione alla Champions League che mancava da otto anni – agendo in maniera esattamente contraria a quella del Napoli. Una squadra che, tra il 2019 e la fine dell’ultima stagione, ha perso solo quattro giocatori considerati titolarissimi – Albiol, Allan, Callejón e Milik – e nel frattempo ha integrato il gruppo storico con i vari Manolas, Lozano e Di Lorenzo nell’estate 2019, poi con Politano, Demme e Lobotka a gennaio 2020, infine con Osimhen, Rrahmani, Bakayoko, Petagna, Juan Jesus e Anguissa nell’arco delle ultime due stagioni.
Proprio come successo al Milan, queste operazioni hanno avuto esiti diversi: alcuni giocatori sono andati bene o quasi bene, altri male; Manolas da una parte e Osimhen dall’altra, Bakayoko da una parte e Di Lorenzo dall’altra. Il punto, però, è che il tronco – tecnico, tattico, emotivo – della squadra è rimasto sempre lo stesso: Ospina e Meret, poi Koulibaly, Mário Rui, Ghoulam, Zielinski, Fabián Ruiz, Insigne, Mertens. Tutti calciatori che, in qualche modo, hanno influenzato in maniera netta le scelte strategiche del Napoli. Quelle tattiche, così come quelle relative al calciomercato. E poi sono tutti calciatori che, in qualche modo, avevano già raggiunto l’apice della propria carriera nel corso del ciclo precedente, quello guidato da Maurizio Sarri.
Gli unici giocatori che sono riusciti a confermarsi agli stessi livelli – di qualità, di continuità – anche dopo l’arrivo di Ancelotti, Gattuso e Spalletti sono stati Koulibaly e Fabián Ruiz (arrivato col tecnico emiliano). Nel frattempo, parlano i fatti, questo Napoli diventato ibrido ha perso la propria dimensione di squadra di vertice – o quantomeno immediatamente subalterna alle squadre di vertice – in Serie A, per poi recuperare quel rendimento nel momento in cui Spalletti ha iniziato a virare, prima sommessamente e poi in maniera sempre più convinta, verso un gioco diverso. Quando ha varato il Napoli di Osimhen, Fabián Ruiz, Anguissa, Koulibaly. Ovvero un mix tra passato e futuro.
Le necessità del Napoli
In virtù di questo breve riassunto delle puntate precedenti, si può dire che il conservatorismo ha reso lentissimo il mercato del Napoli. Che le mancate cessioni non hanno permesso alla rosa azzurra di andare oltre certi nomi e – inevitabilmente – certi steccati. Attenzione: non stiamo dicendo che il Napoli avrebbe acquistato giocatori più forti nel momento in cui avesse ceduto Koulibaly, Mário Rui, Zielinski e Mertens. Semplicemente, sottolineiamo il fatto che questa scelta, quella di non cambiare, abbia privato il club azzurro di scovare e sperimentare giocatori diversi. Ovvero, di applicare la strategia che ha portato il Milan a vincere lo scudetto. E che, giova ricordarlo, ha permesso al Napoli di ritrovarsi proprio i suoi Koulibaly, Mário Rui, Zielinski e Mertens. Tutti questi calciatori, infatti, sono stati acquistati quando erano calciatori da valorizzare, atleti – giovani o comunque non vecchi – affamati in cerca di affermazione.
Era accaduta la stessa cosa, in passato, con Lavezzi, Hamsik, Gargano, Cavani, Albiol, Callejón. Del resto il calcio iper-stratificato degli anni Duemila prevede che il Napoli abbia delle necessità fin troppo evidenti: quella di dover rivendere i calciatori che non sono più alla sua portata, o quelli che non sono più funzionali al progetto, e quella di prenderne altri che, potenzialmente, possano diventare forti come chi è andato via. O anche più forti. Per dirla banalmente, con un esempio pratico: se Benítez, nell’arco della sua prima stagione al Napoli, non avesse relegato Pandev a un ruolo di ripiego, Callejón non si sarebbe mai imposto come uno dei migliori laterali offensivi del campionato italiano. E la stessa cosa, sempre ai tempi di Benítez, valse per Koulibaly nei confronti di Paolo Cannavaro, Britos e Fernández. Fino ad arrivare allo switch Higuaín-Mertens.
Il Napoli ha questa dimensione, è un club che non può aspirare a tenere un grande calciatore per tutta la sua carriera. A meno che non sia il calciatore a volerlo. De Laurentiis in questa situazione ci sguazza, e lo fa al di là delle sue uscite populistiche: col tempo, infatti, il presidente del Napoli ha dimostrato che il suo più grande problema – come manager sportivo – è la sua reticenza a vendere i calciatori a cui si è affezionato. O che crede possano valere una certa somma, spesso spropositata.
La storia recente del Napoli, soprattutto in era pre-Covid, è piena di occasioni mancate per poter incassare delle cifre enormi. Cifre che avrebbero riattivato quei circuiti di mercato che hanno reso competitivo il Napoli. Che l’hanno portato a lottare per lo scudetto in diverse stagioni. Quegli stessi circuiti che, l’abbiamo già detto e spiegato, hanno portato il Milan a vincere il campionato.
Il risveglio
Negli ultimi mesi sono successe delle cose che sono andate oltre quest’idea ultra-conservativa di De Laurentiis. La crisi congiunturale legata alla pandemia e quella particolare dovuta a due mancate qualificazioni in Champions League hanno costretto il Napoli a tagliare il proprio budget stipendi. E così il presidente del Napoli ha potuto fare offerte solo al ribasso per i calciatori che avevano il contratto in scadenza. Contemporaneamente sono arrivate delle proposte economicamente irrinunciabili per Insigne e Koulibaly, ed è così che è iniziata – con tre o anche quattro anni di ritardo – un rinnovamento rimandato fin troppe volte.
È come se il Napoli fosse tornato a essere il Napoli, è come se la squadra che fu si fosse risvegliata da un letargo che si era – assurdamente – imposto. L’acquisto ormai concluso di Kim Min-jae al posto di Koulibaly e quello di Kvaratskhelia al posto di Insigne sono esattamente i tentativi che deve fare una squadra come il Napoli per poter esistere, per poter sopravvivere, per poter essere competitiva. Si tratta di due calciatori giovani se non giovanissimi – Kim ha 25 anni, Kvara ne ha 21 – che forse a oggi non saranno più forti di coloro che sono chiamati a sostituire, ma che potrebbero anche esserlo. Magari tra un anno, magari tra due: non è questo il punto. Il punto è provarci, è riaccendere una macchina di valorizzazione che è stata spenta per troppo tempo.
La tattica
È anche un discorso puramente tattico: come detto da Giuntoli in una conferenza stampa passata alla storia per il racconto della brutta figura di mercato fatta con e per Dybala, Spalletti ha un piano. Un piano per cui Kim e Kvara sembrano potenzialmente perfetti. Come lo erano i giovani scovati dal Milan per il gioco di Pioli. Il Napoli sta immaginando e costruendo sé stesso come una squadra rapida, veloce, verticale, fondata sulle qualità di Osimhen, su un certo tipo di fisicità. Anche Olivera e Ostigard fanno parte di questo pacchetto-percorso.
E pure lo switch Petagna-Simeone ha un senso diverso: l’ex centravanti della SPAL ha una fisicità e una mobilità completamente diversa da quella di Osimhen, tenerlo ancora come prima alternativa del nigeriano costringerebbe Spalletti a cambiare completamente gioco a ogni sostituzione, voluta o incidentale. Simeone, invece, è un attaccante che sa attaccare la profondità, che ama muoversi su tutto il fronte offensivo. È diverso da Osimhen, ma può esserne complemento ma soprattutto riserva.
Certo, è evidente che l’architrave del nuovo Napoli sia proprio Victor Osimhen. Finalmente, viene da dire. Le indiscrezioni su un suo possibile addio non si sono ancora placate, anzi sembrano crescere, ma in fin dei conti la super-offerta – del Bayern o di chiunque altro – che serve per portarlo via da Napoli non è ancora arrivata. Qualora dovesse arrivare, se ne parlerebbe. Com’è giusto che sia. Nel frattempo, Giuntoli e Spalletti stanno costruendo la squadra attorno a lui. Dopo che per anni il Napoli è stato costruito intorno a dei calciatori sicuramente forti, ma che hanno costantemente dimostrato di avere dei limiti. Di poter ambire a certi risultati, a un certo status.
Il mercato che serve, che serviva
Per dirla in una frase: il Napoli sta facendo il mercato che gli serve. Anzi: che gli serviva da tempo. Non è detto che sia quello buono, cioè quello che porterà la squadra a vincere lo scudetto, o anche a fare gli stessi risultati dell’anno scorso, degli ultimi anni. Ma il punto non è questo. Per ragioni di valore complessivo della società, di budget, di bacino d’utenza, il Napoli non può programmare la vittoria di un grande titolo. Può provare a costruirla creando valore attraverso un progetto tecnico-tattico coerente e la ricerca di calciatori forti e giovani che lo sposino, quel progetto. Esattamente come ha fatto il Milan.
Esattamente come ha fatto lo stesso Napoli al tempo di Benítez e Sarri, neanche tanti anni fa. Solo che De Laurentiis è rimasto fermo a quel tempo, è rimasto convinto che quella squadra fosse l’unica possibile per il Napoli. Ovviamente non era così, ovviamente non è così. Ora magari se ne sta convincendo, visto che il vento sta cambiando. O magari si è lasciato convincere a malincuore, chissà. Intanto però Giuntoli e il suo staff – a cominciare dal caposcout Micheli – hanno ricominciato a setacciare il mercato, e in questo senso anche il probabile arrivo di Solbakken – esterno offensivo di 23 anni – è un altro tassello importante, non importa il fatto che avvenga ora oppure a gennaio.
Se il Napoli – un club verticistico che ha scelto di fondare il proprio business sul player trading – si è qualificato sette volte alla Champions League, lo deve proprio alla sua abilità nel fare mercato. Nell’individuare i talenti giusti da comprare e valorizzare. Il fatto che negli ultimi anni avesse deciso di non farlo più era inspiegabile. È stato sbagliato, è stato anti-economico. Ora la giostra è ripartita, ed è la miglior notizia che potessimo ricevere per il futuro della squadra azzurra. Perché quella di Koulibaly è stata una perdita enorme, gravissima, esattamente come quella di Higuaín sei estati fa. Solo che un anno dopo il passaggio di Higuaín alla Juventus, Dries Mertens mancò per un solo gol la vittoria della classifica cannonieri. Magari Kim farà lo stesso percorso, chissà. Quel che è certo è che vale la pena tentare.