Ad alcuni il Saperavi potrebbe ricordare per corpo e struttura l’Aglianico. Ma piano con i paragoni. Come per Khvicha che in lingua mengrelia significa “luminoso”
Spazzato via lo scetticismo nostrano nei confronti di Kvaratskhelia, resta quello tutto europeo nei confronti dei vini georgiani. In pochi lo hanno accolto a braccia aperte in Europa. Se escludiamo una allora ancora spensierata Ucraina presa a consumare casse su casse, nessuno lo scorso anno ha fatto meglio della Polonia che ha importato 7 milioni di bottiglie dalla Georgia. Si potrebbe obiettare che la Russia, geograficamente sul continente ma ormai fuori dal Consiglio d’Europa, ne ha acquistata una quantità nove volte maggiore nello stesso periodo. Eppure, il Paese sulla Vistola – almeno per una volta e in un ambito ben specifico – ha mostrato apertura nei confronti dell’Altro, quello con la A maiuscola.
Chissà se un buon bicchiere di Saperavi non possa aiutare a sciogliere le lingue degli italioti che non hanno mai provato a pronunciare correttamente il nome del calciatore del Napoli. Certo, con un appellativo così il nomen omen è servito su un piatto d’argento: Khvicha (ხვიჩა) in lingua mengrelia, un idioma parlato dal sottogruppo etnico da cui Kvaratskhelia proviene, significa “luminoso”, “splendente”.
Ricordo di una degustazione organizzata da Slow Food a Cracovia nel 2014 da Paweł Woźniak, uno dei primi a puntare sui vini georgiani in Europa. Nel Caucaso del Sud dove si trova l’attuale Georgia la vinificazione è “carta conosciuta” da almeno 8000 anni. Nessuna sorpresa che la regione caucasica possa vantare una così grande varietà di vitigni autoctoni. In quella circostanza a stregare il mio palato fu un bianco tannico, fortemente ramato e dal gusto inedito. Non ne ricordo il nome ma mi fu spiegato che era stato fermentato nei kvevri, grandi vasi di argilla dove il mosto riposa con bucce e vinaccioli. Quel gusto di terra bagnata e frutta bianca fermentata, non l’ho più ritrovato, o forse deliberatamente, non l’ho più voluto cercare, in nessun altro vino. Era il sapore dell’alterità.
Ma il metodo della vinificazione nei kvevri, riconosciuto come patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco, è affascinante anche da un punto di vista semiotico. Il significante di siffatto vino scompare quasi completamente nel suo farsi prima di finire in bottiglia. Dell’anfora sotterrata per mesi nel terreno non fuoriesce che l’orlo del collo a ricordarci della sua presenza. In questo modo il significante resta aggrappato ad un brandello del mondo esteriore e non permette di esprimere giudizi definitivi. Guai a generalizzare dunque.
La Georgia calcistica non è terra di cantere e il vino georgiano del contadino, anche quando prodotto in un contenitore di argilla, non è sempre buono.
Ora riprendiamo il discorso su Kvaratskhelia. Capello ha comparato il calciatore del Napoli a Mohamed Salah da giovane così come ad alcuni il Saperavi potrebbe ricordare per corpo e struttura l’Aglianico. Ma i paragoni di comodo lasciano il tempo che trovano in ogni ambito. In questo momento qualcuno a Napoli e dintorni si starà chiedendo vacuamente chi nella storia recente degli azzurri sia stato il migliore nel “mestiere del tiraggiro”. A quelli che invece si dedicheranno ad imparare a pronunciare nome e cognome di Kvaratskhelia chiediamo un ulteriore sforzo: si prega di sospendere ogni giudizio sul “calciatore luminoso”, e più in generale, sulla stagione in corso del Napoli. A questo punto chi vuole incasellare per forza è perduto. Dopotutto il campionato è appena iniziato. Non è il momento di classificare o pensare a classificarsi. Per godere appieno di questo periodo non resta che abbracciare l’indefinibile dimenticandoci delle etichette prima ancora di posare il calice sul tavolo.