ilNapolista

L’addio di Federer con Nadal è stato l’incubo di Djokovic: terzo incomodo fino alla fine

Il più vincente di una trinità che non l’ha mai accettato. Nel venerdì santo di Federer affonda nelle retrovie, a balbettare “c’mon” come un Ruud qualunque

L’addio di Federer con Nadal è stato l’incubo di Djokovic: terzo incomodo fino alla fine

C’è un momento, nel riavvolgimento del film dell’addio di Roger Federer, in cui si intravede, sullo sfondo, nell’ombra di un flash, Novak Djokovic che appassisce. Fa un passo indietro, lascia in prima fila il Team Europe con nonno Borg a dire cose più o meno a vanvera – che gli vuoi dire, a due così – ai protagonisti del drammone, e china il capo come uno stelo umano soffocato dal sole, senz’acqua. È il momento in cui Djokovic “vede” il suo addio: un bel quadrangolare con Djere, Krajinovic e Lajovic, in diretta su TeleCapodistria (cit. Claudio Giuliani, newsletter Warning)

Intanto quei due, Roger e Rafa, giocano, ridono, pacche sulle spalle, battutine. Poi siedono, in lacrime, lacrimoni, pianti a dirotto. Ufficializzando in mondovisione la fine di coppia, perché un mito solo non bastava, no: ce ne volevano due a sottolineare l’irrilevanza del terzo sempre più incomodo. L’ultima partita di Federer, in combutta con l’amico-rivale più puccioso della storia dello sport, s’è tramutata per converso nell’incubo terreno di Djokovic: la rappresentazione plastica della sua non-appartenenza, dell’alterità rispetto ad un binomio scisso solo dalla vecchiaia agonistica.

Il triangolo no, non l’aveva mai davvero considerato. E però così sfacciatamente non aveva ancora dovuto farci i conti. Il pallottoliere dei record, gli Slam, quanti ne hai visti e chissà quanti ne vedrai, che non basteranno mai. Perché Federer-e-Nadal erano sempre stati un insieme. E lui… lui no. Numero uno, nella solitudine dei numeri primi. S’è ritrovato buttato in un angolo della festa, vicino a una finestra, di profilo, in controluce, come il Michele di Ecce Bombo. “Andate andate, vi raggiungo dopo”.

È stata l’ultima epifania. Ha capito che nessun Foster Wallace scriverà mai “Novak Djokovic come esperienza religiosa”, manco per bestemmia. Nonostante una intera carriera a sentirsi parte di una trinità, vincendo di tutto di più. Soprattutto di più. Nel venerdì santo di Federer affonda nelle retrovie, a balbettare “c’mon” come un Ruud qualunque, impacciatissimo tifoso dei suoi avversari d’una vita, stretto tra un Berrettini in modalità fan invasato e uno Tsitsipas in perdurante catalessi.

Abbiamo riguardato i due set e il long tie-break alla Var, col mirino puntato sulle espressioni del serbo in croce: il sorrisetto, a volte il ghigno, sempre trasparenti. Fate fate, tra qualche mese mi pappo tutto io. Poi il disagio. Il pugnetto alzato a mezz’asta. Che cosa ci faccio qui? Perché non sono su quella panchina in mezzo a Roger e Rafa? Ehi, anch’io sono speciale! La date anche a me la manina?

Tradotto in diplomazia invece suonerà così:


In pochi, nell’immediato, hanno fatto la tara esatta della serata. Non ha solo lasciato il tennis Federer, chiudendo l’epoca, vagamente inquietante, dell’idolatria estetica (“un cocktail di fissazione, stupore e sesso”, l’ha definita Jonathan Liew). L’evento di Londra ha terrorizzato Nadal come un fantasma del natale futuro, incapace lo spagnolo molto più dello svizzero di immaginarsi un’esistenza al di fuori di quel campo: guardatelo in faccia, le sue sono lacrime di angoscia più che di commozione. E ha infine ridotto ai minimi termini emozionali l’altro, il più vincente dei tre a rosicare sullo sfondo, come una quinta di scena impolverata.

Alla fine delle celebrazioni, dopo che Federer avrà abbracciato tutti gli astanti almeno un paio di volte, una telecamera inquadrerà Djokovic singhiozzante. Pure lui stressato dalla psicosi collettiva che per riflesso condiziona l’arena quando il Re ringrazia e sbaciucchia la regina Mirka e vanamente coccola i quattro gemelli: va tutto bene, papà sta bene. Solo Borg e McEnroe resistono, la pellaccia troppo spessa per tali smancerie. Ci ricorda il crollo che lo sorprese a New York nella finale dello Us Open 2021, perduta contro Medvedev un attimo prima di chiudere il Grande Slam e passare alla storia non solo statistica. Quella fu una resa solitaria, incondizionata. L’abbraccio della folla che assisteva atterrita fu quasi una concessione caritatevole. Il piccolo credito di empatia Djokovic se l’è bruciato comunque in pandemia, dando sfogo al Santone Nole capace di purificare l’acqua con le emozioni invece di scaldare un cuore che sia uno.

Lo stacco netto di scena, la sera dopo: Djokovic in doppio con Berrettini, vincenti ma che importa. Ancora in campo, lui, ma quasi da sconsacrato. Poco battibile ancora per altri 3-4 anni, ma leader dei mortali. Nadal a tenergli testa da ultimo “unto” finché un acciacco – il piede fatale – non chiuderà anche quel capitolo. E poi sarà libero, Nole, dai suoi demoni. Quei due maledetti demoni.

ilnapolista © riproduzione riservata