Al CorSera: «Aveva una gran massa di capelli neri. A Napoli mi sentivo uno straniero, mamma gallese e papà napoletano. Ci volevo stare il meno possibile»
Il Corriere della Sera intervista Alan Sorrenti. Nato a Napoli da padre napoletano e madre gallese, ha pubblicato il suo primo album nel 1972. Il successo lo ha raggiunto nel 1977 con l’album «Figli delle stelle». Oggi esce il suo nuovo album, «Oltre la zona sicura». Ha 71 anni. Il 17 novembre, da Napoli, parte il suo tour.
«La mia storia parte da Napoli, dove sono nato e in parte cresciuto. Lì mi sentivo uno straniero, mamma gallese, Gwendoline, detta Gwen, e papà napoletano, Francesco. Indossavo jeans e pellicciotto per mettere insieme le mie anime. In quella città volevo stare il meno possibile. Per fortuna spesso visitavo i nonni nel Galles. Eppoi mia madre lavorava alla Nato di Bagnoli, lì c’era il profumo dei dolci, la musica che arrivava dagli uffici… quando varcavo quei confini trovavo l’America. A 16 anni, per farmi imparare bene l’inglese, mi iscrisse a una scuola privata. A Folkestone, sulla Manica».
Parla dei suoi genitori, non sempre contenti di avere un figlio “sovversivo”.
«Per me avrebbero voluto altro. Tanto che mi ero iscritto a Medicina. Un esame solo, passato a pieni voti. Gli volevo dimostrare che non ero mica scemo. Però mi lasciavano libero, merito di mamma e del suo spirito democratico. Una sola cosa la sconvolse. Era terrorizzata che perdessi il mio accento inglese e iniziassi a parlare americano».
È vero che offrì uno spinello a Nino Manfredi?
«Questa non me la ricordo. E mi pare strano che lo abbia fatto, non mi sopportava tanto. Per qualche anno sono stato fidanzato con sua figlia Roberta. Manfredi era all’apice della carriera, aveva girato un film come Per grazia ricevuta, io ero un ventenne che suonava. Lo capisco, le mie visite a casa sua gli rompevano la concentrazione. Sua moglie Erminia diceva che la mia musica era terapeutica».
Napoli negli anni Settanta era un fiume di creatività.
«Con Tony Esposito suonavamo nel magazzino di stufe di mio padre, che pensava sempre a lavorare. Al contrario di me. E poi la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Roberto De Simone, Peppe Barra, Eugenio ed Edoardo Bennato. Le storie si intrecciavano. Pino Daniele stava al quartiere Sanità, più soul del Vomero, dove vivevo io. Era un po’ più piccolo di me, lo incrociavo per le scale di casa mia. Io salivo e lui scendeva, un ragazzo con una gran massa di capelli neri. Andava a suonare con mia sorella. Un paio di mesi prima che morisse mi invitò a un suo concerto a Napoli. Ero contento di riabbracciarlo dopo tanti anni. Una persona piena di entusiasmo e progetti. Dietro le quinte mi confessò che voleva ricreare il Neapolitan Power».
Nel1977 scrisse «Figli delle stelle».
«Non è nata all’improvviso, ma l’ispirazione arrivò in America. Ero nelle stelle non soltanto in senso fisico, prendevo parecchi aerei, ma anche per l’energia e la magia che trasmetteva Los Angeles. Quell’anno uscì Star Wars di George Lucas, feci la fila a un cinema, il Sunset Boulevard era un luccichio continuo. In Italia la presentai per la prima volta al Divina di Milano, un club gay. Quella sera c’era anche Grace Jones che cantava la Vie en Rose. Per me quella canzone rimane una rivelazione, sono ancora un figlio delle stelle».
Il successo le ha sballato l’esistenza?
«Volevo gestire la mia vita e non ci riuscivo più. All’inizio la fama è un gioco divertente, un bel film di cui sei il protagonista. Dopo viene fuori una follia autodistruttiva, cominci a essere così incasinato e fatto che non puoi più creare quello che vuoi».
Nel 1983 la sua ex moglie l’accusò di uso e spaccio di stupefacenti. Ci fu il processo, la condanna.
«Nella vita si fanno degli sbagli. Ma dopo il vuoto, nel 1988, ho cominciato una rivoluzione umana, sono diventato buddhista della Soka Gakkai International. Da quel momento c’è un altro Alan».