Al suo arrivo il Real era considerato un mix mal riuscito tra vecchie glorie – Benzema, Modric, Kroos e Courtois – e giovani strapagati e poco concreti (Valverde, Vinicius, Militao, Rodrygo)
Aldous Huxley, filosofo e scrittore britannico, rimproverava la maggior parte degli esseri umani per una «capacità infinita di dare per scontate le cose». Ed ecco, che oggi il Real Madrid domini la Liga – ieri un’altra vittoria contro l’Elche, quattro giorni fa l’archivio di un Clàsico senza storia – e che sia qualificato con due turni d’anticipo agli ottavi di Champions sembra cosa scontata. E lo sarebbe, se si considerasse la storia del Madrid in quanto tale. Peccato che la tradizione sportiva, da sola, non basta: per ulteriori delucidazioni chiedere ai tifosi del Manchester United. Occorre il lavoro. Occorre un progetto tecnico credibile. E sarebbe bene ricordare, dopo un anno e mezzo che ha assunto l’aspetto di un’era geologica, qual era la situazione della squadra di Florentino Peréz quando il patron decise di riaffidarsi all’esperienza di Carlo Ancelotti l’anti-narcisista che veniva da due esperienze – Napoli ed Everton – intorno a cui una buona parte dei media aveva costruito una narrazione tossica.
Ebbene, la situazione era questa: i Blancos avevano appena concluso una stagione con zeru tituli. Che da quelle parti equivale più o meno a una catastrofe. Secondo posto nella Liga, eliminazione in semifinale in Champions, eliminazione al terzo turno in Coppa del Re e mancato accesso alle finali di Supercoppa. Senza scomodare la categoria del disastro, era inevitabile superare la gestione Zidane. Pure perché la squadra era, sulla carta, più o meno la stessa che Carletto, rivoltandola come un calzino, avrebbe portato poco meno di un anno dopo sul tetto di Spagna e d’Europa, ma con un Sergio Ramos ed un Varane in più in difesa (in più per Zidane) – e non parliamo proprio degli ultimi arrivati. Il Madrid era considerato un mix mal riuscito tra vecchie glorie – Benzema, Modric, Casemiro, Kroos e Courtois giudicati a fine corsa – e giovani strapagati e poco concreti, Vinicius Jr. e Rodrygo su tutti. Ma anche Militao (che ha soli 24 anni) era considerato un oggetto misterioso e inaffidabile; nonché quel Pajarito Valverde che l’anno scorso aveva segnato una sola volta, in Supercoppa (vinta) e che oggi – al sesto gol stagionale, utilizzato indifferentemente in tutte le posizioni del campo – dichiara i dieci gol come obiettivo possibile. Ancelotti, che gli ha chiesto di migliorare in fase realizzativa, gli ha svoltato la carriera, ed ora l’uruguayano – scherzosamente – si batte per non fargli stracciare il tesserino di allenatore.
Ma andiamo per step.
Vinicius – che oggi è considerato tra i migliori calciatori al mondo, ottavo nella classifica del Pallone d’oro – la stagione prima dell’arrivo di Ancelotti aveva chiuso con 3 gol nella Liga. Lo scriviamo anche a lettere: t r e. Ne aveva fatti tre anche in Champions, in totale fanno 6. Benzema implorava i compagni di non passargli il pallone, diceva che Vini giocava contro il Madrid. Questo era. Considerato un innamorato del pallone, uno di quelli senza speranze che non la passava mai. A Milano quelli come lui li chiamavano i venezia: “quello fa il venezia”. Ora, a ottobre, di gol ne ha già fatti 7. L’anno scorso, a fine stagione, ne aveva segnati 22. Tra cui il gol dell’1-0 al Liverpool nella finale di Champions. E al netto dei numeri ha messo le sue doti al servizio di una concretezza che oramai si dubitava potesse mai avere in carriera. E allora si può scrivere che sull’esplosione del brasiliano c’è il marchio di Carlo Ancelotti? Ci sembra doveroso. Del resto l’ha sempre fatto in carriera, pur senza sbrodolarsi in auto-elogi tipici di chi non ha la stoffa. Con tanti saluti a coloro i quali lo definiscono «gestore» – al pari di Tim, Vodafone e Wind3 – e non allenatore.
E Rodrygo? Ma chi era Rodrygo? 2 gol nella stagione 2020/2021, 9 l’anno scorso – tra cui la doppietta al Manchester City in semifinale di Champions, per l’appunto – e già 5 quest’anno. Qualcuno forse aveva pronosticato che Rodrygo potesse essere un calciatore decisivo per vincere la Champions?
E la difesa? Lo ribadiamo, anche se l’abbiamo già scritto: Ancelotti la difesa del Real Madrid l’ha dovuta reinventare. Quest’anno è arrivato Rudiger – una certezza – ma l’anno scorso Carletto ha sopperito alle partenze di Ramos e Varane, due difensori che col Madrid sono stati protagonisti nelle vittorie in Champions League, facendo esplodere Militao. Uno che avevano comprato per 50 milioni di euro dal Porto e che per due anni aveva fatto praticamente solo panchina: mai dall’inizio in Champions e solo 10 volte su 38 nella Liga nel 2019/2020; numeri più o meno confermati l’anno successivo, quando complici alcuni infortuni aveva giocato ancora meno. Militao l’anno scorso è stato un protagonista della vittoria della Liga e della Champions: 50 presenze.
Fin qui i “giovani”: Valverde (24), Vinicius (22), Rodrygo (21), Militao (24). A cui vanno aggiunti Camavinga (20 a novembre) e Tchouameni (22), visto che si considera scontato che il Madrid vinca ogni anno, visto che si scrive che è una squadra dove l’allenatore non conta niente e i calciatori vanno col pilota automatico, ma non si fa i conti col fatto che il Real Madrid – lo scrive il Cies – è la squadra che compra i più giovani in Europa. E che lo stesso Casemiro, questa estate, non l’ha sostituito con un calciatore come si suol dire “fatto e finito” (anche se Tchouameni lo hanno pagato 80 milioni, non bruscolini).
Ma al di là dei giovani, Ancelotti ha anche il merito di aver rivitalizzato “i vecchi”. È vero, Benzema è un fuoriclasse. Ha stravinto e strameritato il Pallone d’oro. Ma non lo aveva nemmeno sfiorato negli anni precedenti e neanche negli anni successivi alla partenza di Cristiano Ronaldo. 44 gol in stagione non li aveva mai segnati. Li ha realizzati l’anno scorso. E dalla bocca di Ancelotti non sentirete mai, neanche lontanamente, un auto-attribuzione di meriti.
Senza dimenticare Courtois. Oggi sono tutti bravi a dire: “eh ma il Real ha un portiere che para tutto”. Non era così all’arrivo del leader calmo. Il portiere belga, l’ultimo vincitore del Trofeo Jascin, dopo la vittoria della scorsa Champions ha sentito il bisogno di dire di essersi preso una rivincita. Disse che ridevano di lui, che un giornale, a marzo, non l’aveva inserito nella top 10 dei portieri più forti al mondo. Era il risultato di una crisi che durava da tempo: la prima stagione al Real Madrid non era andata benissimo (si scriveva addirittura che fosse «il peggior acquisto della storia del Real»), al Chelsea nonostante abbia alzato due Premier gli era rimproverata poca umiltà. Guardatelo oggi, Courtois.
Se qualsiasi altro allenatore avesse fatto quello che ha fatto Ancelotti in un anno e mezzo di Real Madrid, gli avrebbero dedicato le statue. Carletto ha il difetto – se ne ha uno – di aver fatto sembrare normale quella che invece è stata una rivoluzione copernicana. Forse perché, in campo e fuori, ha sempre avuto la capacità di tenersi distinto e distante dall’egocentrismo e dai narcisismi di quelli che abbiamo definito i guru del «mio calcio». Lui, Ancelotti, il «suo calcio» non ha mai voluto identificarlo. A settembre del 2018, quando avevamo la fortuna di riaverlo in Italia, a Napoli, lo disse chiaro e tondo.
«Se esiste l’Ancelottismo? No, se non hanno tirato fuori questa parola vuol dire che non esiste. Come Guardiola, Sarri si è legato a un’identità precisa e definita. La mia filosofia non è legata a una precisa identità, a me piace il gioco corto e quello lungo, mi piace l’attacco ma anche difendere bene, il calcio è anche difesa bassa, a me piace pressare alto ma il miglior modo per non subire gol è avere poco spazio alle spalle. Il mio calcio è poco identificabile».
E forse è per questo, in fondo, che Ancelotti non passa mai di moda. E che vince, vince sempre, con la calma dei più grandi.