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Panariello: «Per anni mi sono sentito in colpa per la morte di mio fratello. Sono stato fortunato, lui no»

A Il Messaggero: «Nel cinema bisogna farsi vedere, andare alle feste giuste, camminare sui red carpet. Io non lo so fare. E pago il peccato di essere un comico».

Panariello: «Per anni mi sono sentito in colpa per la morte di mio fratello. Sono stato fortunato, lui no»

Il Messaggero intervista Giorgio Panariello. Venerdì scorso ha compiuto 62 anni ed è tornato in tv come giurato di Tale e Quale Show, il programma condotto da Carlo Conti su Rai1.

Parla della sua esperienza al Festival di Sanremo, nel 2006. Fu uno dei festival meno visti di sempre, con una media del 40% di share.

«Quell’anno nessuno voleva fare Sanremo: nel 2005 Paolo Bonolis era andato così bene che tutti temevano il confronto. Così i dirigenti della Rai vennero da me in ginocchio. Dissi di sì ponendo condizioni chiarissime: “Ho appena finito il mio show e non ho più cartucce, quindi posso venire come conduttore che cerca di fare il Festival e un po’ lo disturba”. Capii solo troppo tardi che così non si poteva fare. Le pressioni erano tantissime: Rai, ascolti, discografia, soldi, sponsor… Ero solo, nessuno mi aiutava. Mi ritrovai a guardare il soffitto chiedendomi: perché ho accettato? E non sapevo che c’era l’embargo dei cantanti, non me l’avevano detto…».

Con il cinema cosa non ha funzionato al contrario di altri suoi colleghi?

«C’è stato un momento in cui, grazie a Leonardo Pieraccioni, bastava essere toscano per fare un film. Io firmai con Cecchi Gori anche come regista, ma dirigere non fa per me. Il primo andò bene, Bagno Maria del 1998, ma il secondo – Al momento giusto del 2000 – molto meno. E la colpa era mia. Quindi ora voglio solo prestare la mia faccia al cinema, pur non frequentandolo. In questo mestiere bisogna farsi vedere, andare alle feste giuste, camminare sui red carpet… Io non lo so fare. E poi pago per il mio grande peccato: essere il comico di successo del sabato sera».

Qualcuno ancora oggi non glielo perdona?

«Sì, è così, anche se le cose un po’ stanno cambiando. Altri colleghi hanno strambato, io devo solo aspettare il film giusto per dimostrare che so recitare. Quelle poche volte che l’ho fatto è andata bene. Come nel 2016 con Uno per tutti di Mimmo Calopresti».

Due anni fa ha scritto il libro “Io sono mio fratello”, dedicato a Franco, ex eroinomane morto nel 2011 a 50 anni.

«Dopo tanti anni ho scritto un monologo su di lui e sono venute fuori tante cose, a cominciare dal senso di colpa, che ho avuto per anni. Sono nato un anno prima di lui e quando nostra madre ci ha abbandonato, io sono stato adottato, mentre lui è andato a finire in collegio. Mia nonna non poteva permettersi economicamente un altro bimbo in casa. Già aveva me e cinque figli suoi».

Si è mai chiesto che fine avrebbe fatto se fosse stato al suo posto?

«Forse la sua, chi lo sa? Io sono stato fortunato, lui sfortunatissimo. Comunque l’ho scritto anche per raccontare che alla fine ce l’aveva fatta: quando la notte di Santo Stefano del 2011 l’hanno lasciato in un’aiuola di Viareggio, Franco non è morto di overdose ma di ipotermia. Si era ripulito pur essendo un caso disperatissimo. Aveva vissuto per strada, da barbone, era stato arrestato…».

Lei, invece, ce l’ha fatta grazie a cosa o a chi?

«Al carattere. In quegli anni là, gli Anni ‘80, tantissimi ragazzi dalle nostre parti iniziarono a bucarsi e a farsi di cocaina. Ci sono andato vicinissimo. Solo il mio carattere ha fatto in modo che ne uscissi immediatamente e con paura. Ci sono momenti in cui tua occasione non arriva mai e tutto sembra insormontabile… Io poi, non sembra, ma sono timido e introverso, e ho faticato più di altri: il vero successo l’ho avuto a 40 anni».

Ha mai saputo chi è suo padre?

«Purtroppo no. Ma credo che non sapesse di esserlo. Sono frutto di un’avventura di una notte».

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