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Panatta: «Lo sport professionistico fa male, ma io non me la sono rovinata la vita per vincere»

Intervista al Napolista. «Non sono scandalizzato per la ginnastica ritmica, ma per i genitori. Se un operaio lavora 8 ore, perché i bambini devono lavorare di più?»

Panatta: «Lo sport professionistico fa male, ma io non me la sono rovinata la vita per vincere»
Portrait of Italian former tennis player and director of Italian Open, Adriano Panatta 21 May 2000 at the Foro Olympico Stadium in Rome. (ELECTRONIC IMAGE) (Photo by GABRIEL BOUYS / AFP)

Adriano Panatta ne ha dette tante. È un affabulatore, pesca da un’aneddotica artigianale imbattibile. Ma spesso è quello che non dice, che fa la differenza. Il sorrisetto malizioso mentre ti ascolta. Ecco, quello se lo intercetti al volo è una risposta a sé. Come quando gli racconti che alle Finals Djokovic s’è impantanato in un assurdo vietnam di 3 ore contro Medvedev senza alcun motivo logico (era già in semifinale, perché sbattersi così?), e per poco non sveniva. Lui ti stoppa: “È svenuto?”. Non è una vera domanda, è una risposta. L’implicito è che no, Nole non muore mai in campo, un po’ recita un po’ soffre davvero; per lo più si incazza fino a farsi imbattibile. Libera traduzione di quel sopracciglio alzato, unico sintomo dell’ironia cinica che trasmette quasi per agamia.

Faccia a faccia Adriano Panatta raddoppia un’intervista, parla ma nel frattempo con una sua lingua dei segni impercettibili ribadisce o suggerisce un’incoerenza impronunciabile. Il tema, attualissimo sempre figurarsi adesso che è scoppiato il bubbone della ginnastica sadica, è che “lo sport professionistico fa male”. La domanda è: deve fare male per forza? C’è un limite? O per raggiungere dei risultati, per vincere, bisogna sacrificare un pezzo di vita, quasi abbrutirsela?

Io certamente non me la sono rovinata la vita, per vincere“. Ed è la prima risposta, di botto, che lo rende un esperto per contrasto. Perché Panatta è per tutti (tranne che per la Fit di Binaghi*) il miglior tennista della storia italiana, ma se l’è goduta eccome.

“Bisogna fare un distinguo tra i bambini e gli adulti, tanto per cominciare. Sono due discorsi diversi. Un agonista di 18 anni può decidere di fare quello che vuole, soffrire quanto gli pare. Per per i minori, chi deve vigilare sono i genitori. Se una ragazzina pesa 36 chili e io sono il papà qualche domanda devo farmela. Se questa bambina viene a casa e non mangia mai… al di là di quello che è successo nel caso specifico della ginnastica italiana, anche la scuola ha un ruolo molto importante, educativo. Gli insegnanti che stanno tutti i giorni insieme ai ragazzini si devono accorgere che qualcosa non funziona. Io non sono scandalizzato dal caso della ginnastica ritmica. Ma sono scandalizzato dell’indifferenza della parte genitoriale. Un figlio è un figlio”.

“Quando cresci, diventa tutto molto soggettivo, c’è gente che è determinata ad arrivare (e non è detto che ci arrivi, anzi) e ci prova. E si alza alle 5 del mattino perché l’acqua del Golfo di Napoli a quell’ora è più calma e si allena per poi diventare gli Abbagnale”.

La percezione di chi adesso legge le storiacce di bullismo istituzionale della ginnastica italiana è che rispetto al passato – forse – si è alzato il livello: c’è più concorrenza, e c’è il professionismo indotto fin da piccoli. Perché, molto banalmente, se non fai così non vai da nessuna parte. Prima invece…

“Non è che si è alzata l’asticella rispetto ai tempi miei, è che è cambiata la tipologia degli allenamenti, gli atleti sono anche molto più aiutati per certi versi. Le metodologie di allenamento, la scienza dell’alimentazione… è tutto molto diverso rispetto ai tempi miei. Ma il tempo che uno dedica alla fatica è sempre lo stesso”.

È dunque un problema di consapevolezza? I genitori di oggi sono più propensi a progettare le eventuali carriere dei bambini? Sono più… protettivi?

“Mah, io li trovo più distratti, piuttosto. Perché oggi anche i ragazzi stessi hanno più conoscenze, sono più emancipati. E passano le giornate col telefonino in mano, esattamente come fanno i genitori. E sanno troppe cose. Prima noi eravamo più ignoranti, ma anche più liberi. La vita prima era più morbida, adesso è più stressante per tutti, anche per i ragazzi. Quando vedo i ragazzini che vanno a scuola ed escono di pomeriggio, poi fanno danza e nuoto e tennis e pianoforte… Voglio dire: se un operaio lavora otto ore, perché i bambini devono lavorare di più? Dovrebbero uscire da scuola e stop: ho fatto il mio, esco a divertirmi”.

Torna in campo Djokovic, il quale a giustificazione della suddetta partita inutilmente assurda aveva dettato ai giornalisti una lezione di agonismo puro: “Io non faccio mai calcoli, voglio vincere ogni punto di ogni partita in ogni momento”. Il punto è proprio questo: serve una tara mentale del genere per vincere. O No?

“Deve essere così, ma ci sono anche lì dei limiti. Lui è entrato in un trip. Il tennis poi ha altri fattori che incidono, non basta la fatica e il sacrificio. Durante un match ci sono sempre tante cose che succedono, e di cui la gente non si rende conto: evidentemente in questo caso non voleva dare soddisfazione a Medvedev. Scatta un clic, ci sono le simpatie, le antipatie, le amicizie… Tante cose messe insieme. Lui è uno molto determinato. Ma le personalità degli atleti sono una diversa dall’altro, approcci diversi, ambizioni diverse. E poi… Lui è Nole, ma io so’ stato Adriano”.

*In un’intervista a La Stampa di una decina di giorni fa, Binaghi aveva celato (male) un certo astio nei confronti di Panatta, finendo per affermare che lui “La Squadra” (il meraviglioso docufilm sulla Coppa Davis del ’76) non l’ha mai vista. Forse l’unico in Italia, pur essendo il Presidente della Federtennis… Ecco. Domanda fuori scena: possibile che Binaghi davvero non l’abbia vista? Risposta: “Binaghi chi?”. E quello che poi non dice, con quella faccia, fa tutta la differenza del mondo.

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