Al Fatto: «Mi sono ritrovato davanti a sale vuote. Conosco quell’amarezza. Mai girato uno spot, il mio viso è per il teatro non per la pubblicità»

Il Fatto Quotidiano ospita una lunga intervista a Toni Servillo. Il suo ultimo film è “La stranezza”, per la regia di
Roberto Andò. Servillo interpreta Pirandello. Racconta il suo rapporto con il pubblico e con i fischi.
«Vivo da 43 anni dietro le quinte: so cosa significa palpitare per una prima, prendere i fischi, gli applausi, capire se lo spettacolo funziona o meno».
Ha ricevuto fischi?
«Capita. Non proprio i fischi come quelli raccontati per la prima dei Sei personaggi. Erano altri tempi. Con il teatro ho iniziato in un’epoca in cui già si cominciava ad avvertire, da parte del pubblico, un atteggiamento di interesse che poi declinava verso l’indifferenza. Oggi di più. Per eccesso di informazione, per la velocità delle informazioni stesse».
Ma come reagiva ai fischi?
«Più dei fischi mi sono trovato davanti a sale completamente vuote, o con quattro spettatori molto interessati, tra cui un critico, magari un collega; so cosa significa l’amarezza di non vedere il proprio lavoro raggiungere l’alveo naturale che si sviluppa solo nel confronto con il pubblico. Quando uno si cimenta con una creazione segue sempre una necessità interiore, un’idea che ha coltivato per molto tempo, però in teatro più che mai il pubblico è essenziale; Pirandello definiva gli spettatori “la visione di chi assiste”; per lui c’era una visione dell’autore, una del regista, una degli attori e una di chi assiste. E che il tutto entrasse dentro la stessa officina teatrale. Anche Shakespeare considerava il pubblico un drammaturgo.
Sul Fatto sia Teresa Saponangelo sia Marco D’Amore parlano di soggezione nei suoi confronti. Servillo ricorda che D’Amore ha iniziato con lui quando era molto giovane, che era «sempre dietro le quinte a osservare: è stato in grado di sostituire tutti». Della Saponangelo dice che è bravissima. E aggiunge:
«Gli voglio bene; ho sempre provato molto rispetto per gli attori che mi precedevano e che ho avuto la fortuna di frequentare: da alcuni ho imparato tanto, come con Leo de Berardinis e Carlo Cecchi. Con loro c’era amicizia e confidenza, ma sempre venate da una giusta distanza; una distanza rispetto a chi ammiri te lo fa amare e capire meglio».
Continua:
«Amo il lavoro, credo nella disciplina».
Ai suoi attori mostra la parte come la desidera?
«Sì, perché sono un attore: se mi chiedono di cosa mi occupo nella vita rispondo “sono un attore”».
Spiega il concetto ricorrendo ad una battuta di Carmelo Bene, che diceva: “Se l’attore fa il personaggio, chi fa l’attore?”.
«Fare l’attore, oggi, è diventata una frase che si presta a tanti equivoci, perché lo fanno tutti; essere un attore significa rinunciare ad altre ipotesi dell’esistenza per dedicarsi completamente a questo mestiere».
Significa, spiega, «valutare a quante cose uno ha rinunciato per il proprio mestiere». E aggiunge:
«A volte, e sul piano privato può risultare doloroso. Però interpreto questo mestiere con una dedizione totale, nel teatro è assoluta; sono sempre con la mia compagnia, sono in scena con loro, non firmo la regia e poi abbandono. Questo significa che per me non esiste nulla di dimostrato a monte, ma solo qualcosa di dimostrabile nel tempo in cui si raccoglie il senso a valle».
Sulla finzione della recitazione:
«Un attore si deve porre la questione. Eduardo, in un’altra epoca, quando lo chiamavano dalla Rai e gli dicevano “sono la tele visione”, rispondeva “ora le passo il frigorifero”; oggi questa battuta geniale non ha più senso, siamo invasi da protesi digitali. Per Eduardo a teatro la suprema verità era la suprema finzione. Oggi fingere è un problema per chi lo fa e per chi è disposto a credere che sta fingendo, ma esprimendo la verità; per questo ora mi è impossibile fare compagnia: è un momento così nebuloso da non saperlo trasferire ad altri attori».
Servillo racconta il suo rapporto con le sceneggiature.
«Venendo dal teatro le leggo con attenzione. Adesso le conservo, prima, sciaguratamente, le buttavo. Ero talmente ossessionato da dover imparare bene la parte che dopo aver girato la scena stracciavo la pagina».
Sono 30 anni dal primo film, Morte di un matematico napoletano di Martone.
«Ha segnato un punto di svolta nel cinema napoletano; io non lo immaginavo, è stato Mario a coinvolgermi. Mi vedevo solo come un uomo che avrebbe cercato di ottenere il massimo della vita dal teatro. Mario prima, Sorrentino poi mi hanno aperto al cinema».
Non gira neanche spot, che, ammette, gli sono offerti spesso, anche a cifre importanti.
«Non riuscirei a interpretare la sera in teatro Jouvet e poi sapere che il pubblico torna a casa e trova lo stesso viso in uno spot; però non voglio ergermi a persona che esprime un giudizio morale, ognuno è libero, ci mancherebbe».