Aveva 53 anni. Annunciò la leucemia in conferenza stampa, il tentativo di farsi esempio. «Forse questa storia ha unito la gente». Non gli sarebbe piaciuta la melassa del lutto
Sinisa Mihajlovic è morto. E non c’è un altro modo per dirlo, al netto della retorica della “battaglia” che prevede l’assurdità di vincitori e sconfitti. Non è “scomparso”, no. L’opposto semmai: la morte di Sinisa Mihajlovic è straordinariamente visibile. Pesante da sopportare, dolorosa. Perché lo stesso Mihajlovic aveva provato a dare un senso a quella malattia precoce, diceva.
Mihajlovic rese pubblica la malattia come un incubo, il 13 luglio del 2019: andò in conferenza stampa e, commosso, tra le lacrime trattenute a stento, annunciò di avere la leucemia mieloide ad alto rischio. Fu lui per primo a dire “dobbiamo giocare per vincere, devo usare la tattica, so che vincerò”. Quel che dopo è stato l’abbiamo visto tutti perché lui così ha voluto: una lezione di volontà, di tigna, di sopportazione. Per andare oltre quella retorica, per darle appunto un significato sostanziale. Costretto ad abbandonare la panchina del Bologna, prima temporaneamente poi definitivamente lo scorso settembre, aveva imboccato il percorso di chemioterapia e cure – nel dipartimento di Ematologia del Sant’Orsola di Bologna – senza filtri.
S’è mostrato alla gente per farsi esempio della “lotta”. Come quella sera d’un 25 agosto, in cui si ripresenta a sorpresa in panchina al Bentegodi, pallido, magro e con un cerotto a vista sul collo, solo 40 giorni dopo. “Avevo fatto una promessa e l’ho mantenuta, anche perché quell’immagine non era di debolezza ma di forza”. “Ero più morto che vivo”, dirà poi.
Il 29 ottobre si sottopone al trapianto di midollo da donatore non familiare. Il miglioramento, poi il rientro in panchina in pianta stabile. La malattia, se ne rendeva conto, aveva pacificato il suo passato, i suoi spigoli, gli errori: la tigre Arkan, le aderenze col mondo fascista della curva laziale, il revisionismo storico e il razzismo. “Anche le tifoserie avversarie mi hanno applaudito: forse questa storia ha unito la gente, quando io sono sempre stato uno divisivo“, ammise.
Ma Mihajlovic non ha mai ceduto alla tentazione di lasciarsi santificare. E non gli sarebbe piaciuta la melassa del lutto. Il 26 marzo scorso una nuova conferenza stampa. Ancora Casteldebole. Niente calcio: di nuovo la malattia. “Dovrò assentarmi per un ricovero ma tornerò presto con la squadra. Devo intraprendere un percorso per giocare d’anticipo e non farla ripartire. Questa è la vita, è fatta di salite, curve e buche improvvise”. Queste frasi fanno un po’ impressione rilette in questi giorni, mentre il suo vecchio amico e compagno di squadra Gianluca Vialli mette in pausa la Nazionale per curarsi meglio.
L’ultima apparizione in panchina di Mihajlovic è del 4 settembre scorso, il 2-2 del Bologna in casa dello Spezia. Due giorni dopo l’esonero, pure quello con polemica annessa: “Non sono un ipocrita, questo esonero non lo capisco – scrive in una lunga lettera – Lo accetto, come un professionista deve fare”. Scrive: “Sto bene, non mi sto più curando ma sto solo facendo controlli saltuari”. Voleva essere un commiato solo calcistico.
Il silenzio – rispettosamente tenuto anche dai media nelle ultime ore – è la cifra del suo addio. Dignitoso, senza vinti né sconfitti.