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Il Guardian: «La Francia vince perché è figlia di Ancelotti, l’Inghilterra è influenzata da Guardiola»

Bello il “processo di crescita”, ma il Mondiale non dura 38 giornate. E per vincerlo forse basta fare il Marocco: dare l’anima per 4 settimane e basta

Il Guardian: «La Francia vince perché è figlia di Ancelotti, l’Inghilterra è influenzata da Guardiola»
Londra (Inghilterra) 07/07/2021 - Euro 2020 / Inghilterra-Danimarca / foto Uefa/Image Sport nella foto: Gareth Southgate

In Inghilterra hanno certo imbarazzo ad analizzare la sconfitta dell’Inghilterra. Perché è un’eliminazione che fa male, ma mica tanto. Non è una tragedia, e forse dovrebbe esserlo. Ha vinto la Francia, che è fortissima. Non è il Portogallo eliminato dal Marocco. Non è l’Italia che ai Mondiali manco c’è andata. Non è la Germania. Senza drammi è più complicato elaborare il lutto. Ci prova Jonathan Liew, con un pezzo sul Guardian che riguarda l’Inghilterra ma in realtà l’essenza stessa dell’agonismo: “Come dovremmo voler misurare il successo e il fallimento? A che punto mettere le nostre aspettative?”.

Perché “l’Inghilterra ha giocato bene. Il che non è male. È bello che l’Inghilterra abbia giocato bene. L’Inghilterra gioca bene da qualche anno. Eppure il risultato è stato lo stesso che la squadra di Roy Hodgson ha ottenuto nel 2012, lo stesso di tre squadre di Sven-Göran Eriksson, lo stesso dell’Argentina di Diego Maradona nel 2010 e della Germania nel 1994”.

Ok, quindi giochiamo bene ma non vinciamo. La domanda successiva è esistenziale: che tipo di squadra vogliamo essere?  “Una domanda a cui tutti noi dobbiamo rispondere: non solo giocatori, allenatori, amministratori e media, ma tifosi e pubblico. C’è un comune sentire là fuori: questa volta possiamo risparmiarci il dito puntato e la vendetta, mettere da parte la brama di epurazione e sangue fresco, e semplicemente applaudire una bella prestazione di una bella squadra contro avversari leggermente migliori. Forse  è abbastanza. Forse va bene così”.

Per questo la sconfitta contro la Francia è stata così interessante a tanti livelli”. Liew parla di “reazione al successo o al fallimento”. “E’ possibile che a un livello profondamente inconscio, il concetto stesso di una sconfitta appetibile possa in qualche modo autoprofetizzarla? O, per dirla in modo più schietto: i giocatori dell’Inghilterra e Gareth Southgate avevano abbastanza bisogno di vincere abbastanza questa Coppa del Mondo? Avevano bisogno di vincerla come ne ha bisogno Lionel Messi? Se l’obiettivo dell’Inghilterra di Southgate è vincere un trofeo ad ogni costo, allora chiaramente non sta funzionando”.

Scrive Liew che “ovviamente ci sono altri scopi perfettamente nobili e legittimi per una nazionale di calcio. Far affezionare i tifosi e il pubblico. L’Autoespressione e l’orgoglio. Rendere il viaggio utile quanto la destinazione. Infatti per circa il 95% delle nazioni del mondo l’obiettivo è semplicemente partecipare, dare tutto, continuare a migliorare”.

Magari, è il senso, non c’è bisogno di preparare tutto un movimento per anni, farlo crescere e investire. Magari per vincere un trofeo basta fare come il Marocco: “ingaggi un ct per qualche mese, chiudi alcuni ragazzi di talento in una stanza, urli alcune cose e giochi come bestie dell’inferno per quattro settimane”.

E qui Liew fa un ulteriore passaggio: dice che il vero allenatore in contumacia della Francia “è Carlo Ancelotti, il re della competizione a eliminazione diretta. Sei nazionali francesi hanno giocato per lui al Psg o a Madrid (sette se si include Karim Benzema”. Invece “l’influenza dominante nella squadra inglese è Pep Guardiola, il re del processo”. “Come una squadra di Guardiola, l’Inghilterra ha semplicemente continuato il proprio lavoro, nella convinzione che alla fine l’equilibrio di gioco li avrebbe premiati. Se Inghilterra-Francia si giocasse in una stagione di campionato da 38 partite, l’Inghilterra sarebbe probabilmente campione. Ma la Francia, come Ancelotti, capisce che in realtà puoi giocarla solo una volta”.

Alla fine, conclude Liew, “forse questa analisi sembra un po’ nebulosa, un po’ pseudopsicologica. Ma l’unica domanda fondamentale che ogni squadra sportiva nazionale dovrebbe affrontare prima di tutte le altre è: cosa vogliamo realmente?”.

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