Mattinata di nulla con Abodi, Malagò, Casini, Gravina. È tutto un “verifica”, “riflessione”, “garanzia”, “sistemico”. E De Laurentiis nei panni di Paolini
Gravina e gli altri: che cos’è lo sport italiano
L’avvocato Giancarlo Viglione andrebbe premiato, fuori concorso, con un Tony Award, un Oscar. Per aver trasformato una innocua presentazione del codice di Giustizia Sportiva Figc da lui curato in un atto unico (e raro) di grande commedia dell’arte: lo sport italiano al tempo della crisi. Dove la crisi può essere invariabilmente intesa: quella giudiziaria che riguarda la Juve, ma anche quella fiscale della “grande industria” del calcio, a prebende terminate. Sono tempi fertili, questi, gli inneschi non mancano. Sullo stesso palco, al Salone d’Onore del Coni, si sono ritrovati – tutti assieme – Lorenzo Casini, Giovanni Malagò, Gabriele Gravina, Andrea Abodi. Con Aurelio De Laurentiis nel ruolo di affilato guastatore.
Una rappresentazione jazz. Ognuno col suo repertorio, le grandi intuizioni retoriche, i riferimenti oscuri al politichese antico. Gravina, per dire, ad un certo punto ha parlato di “mondo endofederale”, con la gravità espressiva d’un Carmelo Bene. I microfoni coagulati davanti a lui. Non v’era certezza alcuna del significato di quelle parole, ma senti come suona bene… “endofederale”… Il fascino prendeva evidentemente il sopravvento.
Tutti a parlare degli altri senza nominarsi davvero mai, a misurarsi sott’occhio, con i poveri portavoce a ribalzare qua e là come biglie d’un flipper sperando di avere toppe abbastanza a placarli. Macchè.
Casini, al solito ecumenico, spiegava che non c’è al momento “timore di una nuova Calciopoli”, rifacendosi al mantra garantista per cui non si può parlare di nulla che sia ancora oggetto di indagine anche se ne parlano tutti ovunque. Il calcio si sa, quando non viene intercettato, è notoriamente fatto di gente che sa campare, l’etichetta prima di tutto. Nel frattempo il Ministro dello Sport neo-insediato, però, si lasciava andare ad un irreparabile “il caso della Juventus non sarà isolato e ci permetterà di fare pulizia”. Che è poi solo il sequel dello stesso messaggio trasversale mandato da Gravina a Napoli qualche giorno fa (e poi malamente ritrattato). Da lì partiva un coro unanime: “Velocità, serve velocità!”. Tipo il famigerato “Fate presto!”. “Abbiamo bisogno di sapere presto cosa è successo e che vengano assunte decisioni per ridare credibilità al sistema”, dice Abodi. E Malagò, di controcanto, “serve cautela nei giudizi. Ma è indispensabile fare chiarezza e farla bene, urgentemente”.
La tattile urgenza della politica sportiva italiana si trasformava in appello, solo uno dei “5 gradi di giudizio” che Gravina stava dettando ai cronisti, raffigurandosi ben “27 giudizi sul caso Chievo in due anni”. “E ci sono procedimenti del 2015 o del 2016 di cui non abbiamo ancora certezza”, continuava il Presidente Federale infierendo sui giornalisti ormai presi per stanchezza. Nell’endoverso di Gravina, dovete capire, la giustizia sportiva “è un caposaldo dell’ordinamento sportivo e un pilastro fondamentale di equilibrio nel nostro mondo perché rappresenta una verifica e garantisce il rispetto delle regole e delle competizioni sportive”.
Non solo, Gravina sentenzia – ed è il colpo di grazia – che la Giustizia sportiva sì che è veloce, mica come quella ordinaria. Fa niente che poi la suddetta giustizia riesca a non condannare mai niente e nessuno se non quando costretta – a rimorchio – da quella ordinaria. Conta poco. E il segreto di tanta efficienza sapete qual è? “Il processo telematico. Una novità che ha dematerializzato i documenti, salvaguardando la garanzia del diritto alla difesa”. Esatto: in un tale casino contestuale Gravina ha la prontezza di riflessi di farsi bello dell’uso di scanner e chiavette usb.
Sono interpretazioni strepitose. Il cipiglio con cui tutti invocano la “comprensione di cosa è davvero successo” prima di poter “esprimere i giudizi” è commovente. In una intercettazione passata Malagò diceva dei presidenti di Serie A che “sono delinquenti veri“, senza attendere alcuna Cassazione. Ma si era nella camera caritatis della privata conversazione. Lì vale tutto.
Una buona parte delle interviste verte sulla rateazione fiscale da concedere ai club. Una corale arrampicata retorica nel tentativo di giustificare una misura miracolosa che è riuscita a mettere d’accordo persino Lotito e Cairo. Anche solo per tale prodigio, gli italiani dovrebbero apprezzare. È Natale, sono i giorni di una ritrovata spiritualità.
Ma può mai mancare il Grinch? Ed eccolo Aurelio De Laurentiis che spunta dal nulla mentre Casini è con i cronisti e spara: “Non gli date retta, è schiavo di Lotito”. Tutto si ferma per un attimo, telecamere impalate, registratori fermi, portavoce in sincope. Poi tutto riprende come prima. Con De Laurentiis che accusa il calcio “malato dall’alto”, e l’alto è lì schierato di fianco a lui, che abbozza dissimulando il corruccio istituzionale delle grandi occasioni.
Pescate qui e là, le parole chiave della grande Commedia dell’arte dello sport italiano al tempo della crisi sono sempre le stesse. E’ una grammatica: “verifica”, “riflessione”, “rispetto”, “tema”, “garanzia”, “dialogo”, “sistemico”. Rimescolate come un mazzo di carte per la scopetta producono decine di dichiarazioni buone per tutto, all’apparenza inedite come un pezzo di Sanremo plagiato male, tipo i “cigni di Bakala” di Albano copiata da Michael Jackson. Ma è a «mondo endofederale» che viene giù il teatro. Meglio persino dell’«attenzione attiva» di Abodi. Gravina è imbattibile, non ce n’è. Novantadue minuti di applausi.