Il silenzio social di Cr7 su Messi è imbarazzante. Ed l’ultimo sintomo del suo essere capriccioso. Ronaldo vuole avere 20 anni per sempre
In questo momento ci sono, nel mondo, 78 milioni di persone che aspettano un colpo di Cristiano Ronaldo. Una riga, un meme, una foto con gli addominali di cemento armato a ghiacciare in vasca come una Falanghina d’estate. Instagram, Twitter, Facebook… niente: silenzio radio. E se avvertite in sottofondo una sorta di rumore bianco, ecco: quello è il suono della rosicata. La rassegna stampa dell’ascesi di Messi a dio del calcio deve essergli sfuggita, stamattina aveva 380 serie di panca piana. Ma Ronaldo è uno così ingombrante che lo si nota di più nella sua assenza, alle feste di Nanni Moretti non ci sarebbe mai andato. Per cui più resta zitto più parla.
E parla molto di più la foto della partita a scacchi firmata da Annie Leibovitz per la campagna di Louis Vuitton. Perché Messi ha vinto – e a posteriori è anche indelicato farlo notare – ma soprattutto il titolo stesso della foto raccontava già prima del Mondiale come sarebbe finita la sfida: “Victory is a State of Mind”.
La vittoria di Messi è il frutto di un’evoluzione motivazionale. Di una ragionata presa di coscienza della propria grandezza. Come quei grandi terzini di spinta che terminavano la carriera dettando la regia del gioco da liberi. Uno di quelli è morto tre giorni fa. Messi ha smesso di correre a vuoto, ha rallentato. Ha stravolto i suoi atteggiamenti, il suo gioco, le misure del campo e la metrica dei rapporti con i compagni. Ha capito di avere 35 anni, e ha capitalizzato quel patrimonio di esperienza. L’ormai proverbiale “que mira, bobo” è solo la parte più mediatica dello scacco matto.
Ronaldo invece s’è arroccato. E’ arrivato al Mondiale da disoccupato. S’è guadagnato la risoluzione del contratto col Manchester United con un’intervista da licenziamento, poi è finito a gestire le panchine col Portogallo con la solita carrellata di corrucci agonistici. Fino a farsi eliminare tra le lacrime, mentre il rivale volava via verso il trionfo. Non ha mai accettato davvero la partita. Ha deciso a tavolino di avere 20 anni per sempre, di congelare la propria invincibile immaturità. S’è guardato allo specchio troppe volte, muscolare e affilato, e non se l’è sentita di tradire un’immagine così scultorea. E’ finito per diventare il nemico di se stesso, peraltro senza i filtri del successo che le vittorie gli garantivano. Ronaldo è attualmente un umarell del suo passato immarcabile. Incazzoso come i vecchietti alla posta che “ho 80 anni e dico quello che mi pare”.
Ronaldo, dunque, adesso tace. Rosica, volendo facilmente malignare, ma il senso è lo stesso. Il suo ultimo post su Instagram risale alla scorsa settimana, l’ultimo tweet a 10 giorni fa e il suo ultimo post su Facebook ad otto giorni fa. E’ raggomitolato su se stesso, in una bolla. Lì fuori c’è un mondo che non lo merita, che si ostina a celebrare l’altro. Che non lo capisce, non ne apprezza la pretesa inalterabilità.
Il problema di Ronaldo, a dirla tutta, è la riduzione della carriera al gesto tecnico. Come se all’improvviso il calcio che pure ha dominato non gli riconoscesse di saper giocare meglio degli altri. Messi s’è messo in gioco, ha deciso di trasformare le sue abilità, di mutare forma. I grandi fanno così: Federer ha cambiato modo di giocare tre volte, superati i 30 anni; Nadal idem. Ha determinato anche uno scarto di percezione: è diventato leader per personalità infusa quando ormai nessuno gliene riconosceva più.
Ronaldo s’è imbalsamato nel ruolo del divo. Messi è diventato una divinità. A pallone, più o meno, resta una partita patta. Ma non è quello che fa la differenza tra chi vince e chi rosica.