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Villeneuve Pironi, c’era una volta in Formula Uno

Il documentario di Torquil Jones su Sky. Non è Formula Uno, è vita. Tradimenti, ambizioni, destino. Rilegge attraverso le famiglie i due protagonisti della tragica stagione Ferrari

Villeneuve Pironi, c’era una volta in Formula Uno

Quella di Villeneuve e Pironi è una storia più da Sergio Leone che da Conrad. Un “C’era una volta in America” motoristico. Che solo tangenzialmente riguarda lo sport, in questo caso la Formula Uno. È una storia che racconta la vita. L’amicizia, o presunta tale, l’ingenuità, l’ambizione, il tradimento. Un evento che ha tragicamente segnato due esistenze, due grandi piloti, due famiglie, una prestigiosa casa automobilistica che pagò a carissimo prezzo i propri errori di gestione. E che dovette poi aspettare diciotto anni e Michael Schumacher per vincere quel Mondiale che mancava dal 1979 e che nel 1982 non vinse perché – apparentemente – il destino si accanì. Una scuderia meno protetta dai media sarebbe stata travolta dalla pessima gestione di quella rivalità. Il prezzo pagato fu tragicamente alto. Mediaticamente la Ferrari si salvò ma gli dei dei motori non sono teneri come i giornalisti. Una maledizione si accanì su Maranello. Anche se quel termine, proprio grazie alla benevolenza mediatica, fece raramente capolino.

Il documentario entra in quelle due vite, nei loro intrecci. Si apre con le parole di Joann la moglie di Gilles: «ero molto indecisa se partecipare, non voglio ferire nessuno ma questa storia racconta di un profondo tradimento ed è dolorosa per parecchie persone». Joann ricorda il giorno della presentazione del francese alla Ferrari: «Provai subito una strana sensazione, intuito femminile immagino, misi in guardia Gilles, devi stare attento, gli dissi, lui non è come sembra, l’apparenza inganna». Ma propone anche le frasi meno armoniose mai ascoltate su Villeneuve e a pronunciarle è suo figlio Jacques che poi diventò campione del mondo: «Papà era egoista. Quando venimmo in Europa mi escluse, non voleva portarmi con sé. (…) Non fu certo Pironi a dirgli di provare per la terza volta in quella sessione di prove a Zolder». L’altra frase che resta impressa è di Pironi, dell’allora guascone Didier: «Non credo al destino». E per comprendere ancora meglio il personaggio, il film offre uno spaccato del rapporto con sua madre che lui chiamava ogni giorno, ovunque si trovasse e che dichiarò: «Avere un figlio pilota è come avere un figlio al fronte, in guerra». La madre gli disse: «Ti lascio correre, ma devi arrivare primo».

Un documentario in cui, tra gli altri, parlano Bernie Ecclestone – con una dichiarazione oggi impensabile: «A quel tempo le morti in Formula Uno erano considerate normali»; Alain Prost contro la cui auto andò a schiantarsi Pironi nel giorno in cui pose fine alla sua carriera; Brenda Vernor assistente personale di Enzo Ferrari: «ero l’unica donna e l’unica inglese, io e 199 uomini». È lei alla fine a fotografare la realtà: «Dopo tanti anni, Gilles lo ricordano tutti, Didier nessuno. Ed è un vero peccato».

I documentari devono essere sonde, devono riuscire a scavare nelle storie, nelle vite, fornire immagini, parole, emozioni, stati d’animo inediti. Come se fossero uno spioncino che dà su un evento. “Villeneuve Pironi” è così. E non c’è alcun bisogno di essere appassionati di Formula Uno per guardarlo. In un’intervista il regista Torquil Jones dice: «Non volevamo essere agiografici, abbiamo coinvolto entrambe le famiglie e abbiamo lavorato anni per questo. Non abbiamo un punto di vista, non ci interessano buoni e cattivi. Ci avevano suggerito un documentario su Villeneuve e cominciando a lavorare ci siamo imbattuti in Pironi. Siamo rimasti sorpresi quando abbiamo scoperto che non esisteva alcun film su di loro».

Perché quella storia è un tabù, lo è sempre stato. Per immaginarne la potenza emotiva, basta pensare che oggi ci sono due uomini di 34 uomini, gemelli, che si chiamano Didier Pironi e Gilles Pironi. Paradossalmente, Didier è bruno e Gilles è biondo. Nati nel 1988. Quando Pironi morì, nell’estate dell’87 per un incidente in una gara di motonautica, la sua compagna era incinta. E se a quei due gemelli diede i nomi di Didier e Gilles, probabilmente è perché anche lei fece risalire il senso tragico di quegli avvenimenti al rapporto tra i due. Il documentario non elude nemmeno questo passaggio, con Joann Villeneuve che racconta: «Mi chiamò e mi resi conto che lo fece per capire se avessi qualcosa in contrario. Pensai che non avevo il diritto di oppormi al nome dei suoi figli». Ma che non fosse entusiasta, ancora oggi, è piuttosto evidente.

A questo punto dovremmo raccontare i fatti. Ma è complicato. Mancherebbe sempre un dettaglio. Era il secondo anno di Pironi alla Ferrari. Era arrivato come l’enfant prodige. Ma Gilles gli era sempre stato davanti. Alain Prost, all’epoca alla Renault, rivela che per quella corsa (cui parteciparono poche vetture per una protesta) strinsero il patto di darsi battaglia per il pubblico nella prima parte e poi avrebbe vinto chi era in testa. La storia è nota: a poche curve dall’arrivo Didier superò il compagno di squadra che invece era convinto che sarebbe stata rispettata la tradizionale legge di Maranello per cui tra piloti della Rossa non ci si sorpassa. Mentre dai box esponevano il cartello con la scritta “slow”. Gilles quel giorno sembrava anche più veloce. Forse si fidò, forse – come dice Scheckter – era al limite dell’ingenuità. Di certo non se lo aspettava. Fatto sta che Didier superò e vinse. La sua prima vittoria in Ferrari. Villeneuve era infuriato, si sentì tradito, non riusciva a farsene una ragione. E si sentì anche abbandonato dalla scuderia.

Il Drake amava mettere i piloti l’uno contro l’altro. Quella domenica a Imola non si espose. Non condannò il sorpasso di Pironi. Né lo fece il direttore sportivo Marco Piccinini, testimone di nozze di Didier, unico invitato Ferrari al suo matrimonio. Troppo fedele ai suoi principi, alla sua aura da leggenda, Enzo Ferrari non capì che quel giorno a Imola successe qualcosa che avrebbe fortemente danneggiato la sua azienda. O forse, chissà, sapeva in anticipo che le tragedie a venire avrebbero contribuito ad accrescerne ulteriormente il mito. Quella domenica ai box Ferrari Enzo Forghieri non c’era per una comunione di famiglia. Così come Joann – che non perdeva un Gran Premio – non andò a Zolder per la comunione della figlia.

Sarebbe stata una storia sportiva come tante se nel Gran Premio successivo, a Zolder appunto, Gilles non fosse morto. Si intestardì nel fare un ultimo tentativo in prova per superare Didier. Ed entrò definitivamente nella leggenda. Non c’è suo tifoso che non abbia moralmente intestato quella morte a Pironi. Quell’anno la Ferrari era tremendamente più forte degli avversari. Se fosse stata una storia come le altre, Pironi avrebbe vinto il Mondiale con parecchi gran premi d’anticipo. Era un pilota velocissimo e aveva una grande auto. Il primo presagio ci fu proprio in Canada la terra di Gilles. Pironi era in prima fila ma la macchina non partì. Tutti gli sfilarono davanti. Non il povero Paletti che lo colpì in pieno. E morì. Allora i tamponamenti potevano essere fatali. Poi arrivò Hockenheim, Germania. Terra dannata per la Ferrari. Sotto un diluvio, durante le prove libere, Didier non vide Alain Prost davanti a sé e andò a schiantarsi. La macchina si sollevò in aria, proprio come quella di Gilles a Zolder. L’unica differenza è che le cinture di riuscirono a tenere Didier nell’abitacolo. Ma le gambe furono quasi maciullate, rischiò l’amputazione. La Ferrari perse un Mondiale già vinto, oltre a due piloti e a una discreta fetta di credibilità.

Ne è venuto fuori un documentario a nostro avviso straordinario. Un lavoro di sei anni. Immagini inedite, capacità di approfondire gli stati d’animo dei protagonisti e dei loro cari senza mai sfociare nella morbosità. Le vite private dei due raccontano i personaggi come meglio non si potrebbe. In un’intervista il regista Jones ha detto che far accettare alcuni passaggi a entrambe le famiglie è stato complesso. Quarant’anni dopo, le ferite sono ancora vive.

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