L’atteso “Il primo giorno della mia vita” con un tema intrigante, attori perfetti. Ma lasciando la sala, ammutoliti, resta la sensazione di artificiosità
Da un paio di giorni nelle sale italiane c’è l’ultimo – e tanto atteso – film, del regista Paolo Genovese “Il primo giorno della mia vita”, in cui cura anche la sceneggiatura facendosi aiutare da Rolando Ravello, Kirk Jones e Paolo Costella. C’è l’Uomo Caronte con una Rover station-wagon che gira per una Roma notturna: non ha nome (Toni Servillo) ed il suo carico è composto da suicidi freschi. Lì prende su sulla macchina che a Napoli alla fine degli anni ‘80 chiamavamo significativamente ‘a cascia ‘e muorte. L’ultimo carico è composto da Napoleone (Valerio Mastandrea) che è un motivatore depresso che vuole suicidarsi da un ponte sul Tevere, Arianna (Margherita Buy) che è una poliziotta che vuole uccidersi con la pistola d’ordinanza, Emilia (Sara Serraiocco) ginnasta sempre seconda che vuole farsi librare dall’ultimo piano del Grand Hotel e Daniele (Gabriele Crispini) un bambino – youtuber di abbuffate – che è stufo di essere bullizzato dai compagni di scuola.
A tutti questi l’Uomo concederà sette giorni in cui potranno riappropriarsi del sapore della vita. L’idea di Genovese è valida ed intrigante: interrogarsi sul supremum exitus e sul tempo che fa passare il dolore. Con le splendide musiche scelte da Maurizio Filardo l’Uomo porta in giro per i cinema dismessi e per le spiagge desolate i quattro, confinandoli di notte nell’Hotel Columbia: fantasmi ed anche per un giorno ancora mortali e visibili. Ognuno reagirà a modo suo a questa seconda chance: con un finale a sorpresa. Il soggetto – che deriva da un romanzo omonimo scritto dallo stesso Genovese (2018, Einaudi) – è intrigante ma nonostante le prove attoriali siano del massimo livello si esce dalla visione del film un po’ ammutoliti e si pensa che il tema sia stato svolto con artificiosità. E non si riesce a capirne il perché…