Gli Agnelli hanno più affinità col geometra Calboni che con la Silicon Valley. Sono la cartina di tornasole del declino italiano. Gli anti-juventini non stanno messi meglio
Definire lo juventinismo è operazione assai meno faticosa di quanto possa apparire, specie nei giorni apicali che tutti stiamo vivendo per la storia di questa secolare corrente di pensiero.
La Juventus, infatti, è la declinazione sportiva di un valore fondante del Belpaese, ovvero il proprio provincialismo – cosa che spiega agevolmente il motivo per cui i bianconeri siano da sempre, senza tema di smentita, la squadra con il maggior seguito nazionale.
Il provincialismo è di semplice definizione. Contribuì a fornirne una convincente proprio Massimiliano Allegri in una delle sue interviste quando, rispondendo ad una delle solite deboli domande dei deboli giornalisti sportivi, affermò che il calcio, come la vita, è fatto di categorie. Cosa che, tutto sommato, non avrebbe trovato in disaccordo neppure Aristotele. C’è solo da aggiungere, a corollario, che quanto differenzia in modo significativo singoli e gruppi è l’atteggiamento che essi adottano nei confronti di tali categorie. C’è chi predilige scalare le quote e lasciarsi ammirare facendolo, c’è chi lavora per acquisire sul campo la leadership di questo o quell’ambiente d’influenza, c’è chi è nato per scardinare e mettere in discussione lo status quo e produrne uno nuovo, mentre il provinciale, mosso dall’unico desiderio irresistibile di ottenere uno status di riconoscimento, ha in animo di raggiungere un posto fisso al caldo acquistando il diritto ad appartenere alla categoria cui aspira e un maquillage al proprio albero genealogico, utilizzando i proventi della ricca azienda di avvita bulloni di famiglia– che è poi tipico della fattispecie psichiatrica di chi nutre un irriducibile complesso di inferiorità per i propri natali pur fingendo di tralasciare, in pubblico, tali umane facezie.
Per questo banale motivo, la Juventus genera, come ogni realtà provinciale, un microcosmo di riferimento in cui molti, anche ottimi professionisti, provano un profondo senso di agio e ristoro, perché la provincia è, per sua stessa definizione, protettiva (oltre che intrinsecamente violenta, come Stephen King ci racconta da anni – ma questo è, forse, un altro discorso). Nel microcosmo di riferimento, acquistato lo status agognato, si consumano tutte le necessarie sopravvalutazioni del caso: il bar della piazza del paese diventa il faro dolciario del pianeta, il corso si trasforma in un avenue della meravigliosa “razza padrona” – per usare le posate parole del giornalismo belpaesano. Il provincialismo è tutto un gioco di prospettive ed è il massimo talento italiano, e dunque bianconero.
Lo stesso allenatore Massimiliano Allegri, tra i migliori in Italia, è reduce da un clamoroso ritorno sulla panchina bianconera, dopo aver schivato ben più grandi potenziali sfide oltre confine, che è opera quintessenziale di provincialismo. Tra i grandi coach passati, il Sarri dei campetti polverosi di provincia finì per ovvio destino alla Continassa (coronamento di una vita in banca con il posto fisso ed inamovibile, gomito a gomito con i direttori naturali) mentre altri, meno sensibili al fascino del microcosmo italiano, non mantennero con l’entourage torinese rapporti particolarmente idilliaci. La storia bianconera è un monumento al provincialismo tricolore finanche nella sua fondazione: il fu Avvocato viene ancora oggi ricordato per i polsini delle camice e gli orologi che vi si adagiavano vezzosamente sopra, per la vita mondana, le sciate in montagna – cose strane se paragonate con quanto si celebra oggi nei grandi imprenditori degli ultimi decenni: genio ingegneristico, innovazione tecnologica, sagacia finanziaria. Se è vero che sia difficile amare Elon Musk, è ancor più vero, seppur apparentemente scabroso, che per sua natura la schiatta degli Agnelli sembra trovare più affinità col Geometra Calboni piuttosto che un qualunque grande nome della Silicon Valley. O forse è solo più complicato scrivere una sceneggiatura di successo in cui Iron Man non è un fisico con MBA ma un principe del foro di Torino che fa ricorso al TAR del Lazio.
In Italia tutto questo è di difficile comprensione. E non sorprende. Anzitutto, manca chi ne possa scrivere. Se, in un qualunque giorno della settimana, si sfogliano tre grandi giornali internazionali e due delle maggiori testate nostrane, si ha la netta percezione di vivere realtà incommensurabili: mentre sui primi si nota un generale allineamento sui grandi temi globali, la stampa italiana potrà riportare in prima seminari sul Dante fascista o disquisizioni sulla bidella in treno permanente, incomprensibili a chiunque non viva ben all’interno dei confini nazionali. Eccolo, appunto, netto e definito, il provincialismo come problema prospettico.
In secondo luogo, al provincialismo juventino se ne contrappone da sempre uno esatto e contrario, quello anti-juventino. La gran parte di coloro che sembrano criticare i valori bianconeri appartengono, in realtà, ad un provincialismo se possibile più ottuso e protervo, che oppone al parvenu savoiardo il mortodifamismo sudista – cioè il pauperismo morale. A questa corrente appartengono le fattispecie psichiatriche che, mosse dal medesimo complesso di inferiorità per i propri natali (qui tramutati in orgoglio, per necessità di licenza poetica), pretendono di entrare nella prima categoria a forza di oscene sceneggiate che il mondo intero si ostina a non capire, portandoli ad accusare l’universo intero di cospirare contro di sé.
Non c’è nulla di nuovo in queste definizioni. La storia secolare della commedia italiana – altro genere longevo, pieno di luminose eccezioni e una pletora di opere sopravvalutate in patria e del tutto sconosciute oltre confine – è esemplificativa del sistema: da Il Conte Max giù giù fino a Fratelli d’Italia, questo genere ha raccontato abbastanza da vicino la realtà sociale del nostro paese (qui si potrebbe aprire una parentesi diversa, sull’effettivo valore artistico di un genere che per decenni si ostina a rappresentare costantemente la medesima orrenda realtà che a nessuno, se non ai provinciali, interessa).
La nota di colore – se ve n’è una – è che lo juventinismo sopravviverà anche alla Juventus. Perché quest’ultima non è che la temporanea materializzazione di un modo di essere che è, in fin dei conti, assecondato, lodato, invidiato da decine di milioni di persone. Non è un caso se la commedia italiana non vale più granché da alcune generazioni o se la prima della classe non è più nella prima categoria calcistica del continente da decenni. Neppure è un caso il secondo scandalo sportivo nell’arco di pochi anni. Il sistema che il provincialismo predilige e alimenta è disegnato in questo modo. Oggi l’implementazione ha le strisce bianche e nere. Domani cambieranno solo i colori.