Al Fatto Quotidiano: «Lui e Mogol presero dalla vita dei loro amici un sacco di spunti. Nelle loro mani diventavano successi le disgrazie sentimentali altrui».
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Il Fatto Quotidiano intervista Renzo Arbore. Elogia Amadeus e il Festival di Sanremo di quest’anno per aver riportato in auge vecchi classici della canzone italiana.
«Per fortuna il Festival del bravissimo Amadeus e le trasmissioni di contorno della Rai hanno finalmente suggellato e consacrato, grazie anche a Mattarella, il valore culturale di tanti brani del passato che parevano stagionali e che invece non si sono rivelati merci deperibili. Oggi vengono cantati con lo stesso entusiasmo di quando furono pubblicati».
L’Italia, dice Arbore, non è stata in grado di esportare la sua cultura popolare musicale.
«Eppure la nostra creatività musicale non ha avuto eguali. Da Mina fino alla Carrà. A meno di non tradurle. Altri, come la Francia, la Spagna e perfino gli anglosassoni, hanno sfruttato il potenziale commerciale dei cantanti per diffondere le loro lingue».
Colpa anche dei governi, di tutti i colori, dice Arbore.
«Che non hanno colto l’altezza ingegnosa dei nostri artisti. Non c’è stata divulgazione, promozione, protezione, dialogo con l’estero. Eppure i cantautori hanno toccato vette liriche inimmaginabili».
Una supremazia autorale? Arbore risponde:
«Non solo: chiediamoci perché Edoardo Vianello, che era stato a torto relegato nell’immaginario delle estati del boom anni Sessanta, sia ora oggetto di rivalutazione da parte di Myss Keta, o Ornella di Colapesce e Dimartino, e Orietta Berti con Fedez. I giovani si sono accorti che i loro predecessori meritano ben più di un polveroso rispetto. Anche questi che operavano nell’ambito della musica leggera. All’epoca si pensava che, un 45 giri via l’altro, i loro pezzi sarebbero stati consumati in fretta. Invece ce li portiamo ancora nella testa e nel cuore. All’Ariston abbiamo visto Paoli, Vanoni, Di Capri, Al Bano, Ranieri, Pooh: non parevano degli illustri pensionati. E grazie a Morandi tutta l’Italia ha cantato in coro Battisti e Dalla».
Arbore ricorda Lucio Dalla:
«Conobbi Dalla alla Rca, proprio grazie a Gino. Era un tipo bizzarro. Io facevo il Dj e grazie a me ebbe il primo successo con Il cielo. Ci aveva legato la passione per il jazz, come con Avati. Ma Dalla ascoltava la musica di tutto il mondo e la reinventava. Passava dal reggae di Disperato erotico stomp al napoletano di C a r uso, si innamorava di Nuvolari e poi pareva un profeta su L’anno che verrà. Era il più eclettico. Diceva che in confronto all’immensità delle parole di Era de maggio di Salvatore Di Giacomo, Let it be pareva un jingle».
Su Battisti:
«Rivoluzionò il meccanismo della canzone, che prima di lui aveva attraversato più fasi: in origine melodica con Villa o Achille Togliani, poi Modugno e gli urlatori, infine il rock’n’roll che avevano innescato lo spirito ribelle di Celentano, infine il beat, da cui copiavamo. Battisti mise tutto a soqquadro. Per prima me ne parlò la discografica Christine Leroux, fidanzata con Cino Tortorella, il Mago Zurlì. Era entusiasta di questo giovane che suonava con I
Campioni. Incontrai Lucio prima di Mogol. Abitavo nello stesso palazzo del direttore romano della Ricordi. A cena veniva Battisti, ascoltavamo dischi. Con Mogol presero dalla vita vera dei loro amici un sacco di spunti per brani di natura amorosa. In mano a quei due diventavano successi le disgrazie sentimentali altrui. Innocenti evasioni parlava di una mia avventura….».