Al CorSport: «Un giorno, dopo essere passato professionista, mi disse: “Mamma, io voglio smettere di correre, non è più lo stesso sport”
Oggi ricade l’anniversario della morte del Pirata. La madre ha rilasciato un’intervista al Corriere dello Sport raccontando chi era Pantani prima di diventare un campione del ciclismo italiano.
«Marco era un burlone, in casa ci stava poco, pedalava tutto il giorno e in inverno quando non poteva uscire stava in cantina a montare e smontare qualsiasi cosa. Quando ha iniziato ad andare in biciletta lo faceva per gioco ed è stato così fino a quando è diventato professionista. Ha iniziato perché vedeva i suoi compagni uscire in bicicletta con il gruppo ciclistico “Fausto Coppi” di Cesenatico e un giorno è andato dietro con la mia bicicletta da donna. Quando sono tornata a casa da lavorare l’ho trovato steso a letto. Mi fa: “mamma oggi sono andato dietro a quelli della Fausto Coppi, sono stanco morto ma non mi hanno mica staccato!”».
Mai una lite, un diverbio per le bici. La mamma Tonina non ha mai spinto suo figlio, né gli ha mai impedito una passione di cui Pantani parlava a tavola durante i pranzi con il papà. Un giorno però le disse che voleva smettere, ma ancora non capiva il perché. «Non è più lo stesso sport», diceva Pantani alla madre.
«Marco mi preoccupava sempre. Quando si faceva male lo sentivo ancora prima che partisse, tanto che ad un certo punto ho iniziato a pensare che fossi io a portargli sfiga! Di incidenti ne ha avuti moltissimi anche da ragazzino ma non ha mai avuto neanche lontanamente il pensiero di smettere. Aveva una forza di volontà e una sopportazione del dolore sovrannaturale».
«Un giorno, dopo essere passato professionista, è venuto al chiosco e mi ha detto: “Mamma, io voglio smettere di correre” “Ma cosa sei matto!? Con tutti i sacrifici che hai fatto!” “Non è più lo stesso sport”. Solo dopo ho capito cosa volesse dire».
Poi racconta il sogno di Pantani:
«Marco voleva avere una squadra di 1000 bambini per insegnargli ad andare in bici. Lui alla fine non è riuscito a realizzarlo ma ho deciso di farlo io al posto suo. Per me è stato un grande sacrificio, più volte ho sentito gente dire: “ma non ti vergogni ad indossare la maglio di un drogato?”. Dopo 12 anni però non ce l’ho più fatta e ho lasciato. Non per colpa dei bambini, sia chiaro. Per colpa dei genitori. Quando vedi un genitore mettere il caffè nelle borracce dei bambini capisci che il ciclismo è destinato a morire… I bambini a quell’età devono fare gruppo, devono stare bene, divertirsi come faceva Marco. Oggi c’è un’idea della competitività assurda, esagerata».