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Il figlio di Di Bartolomei e una vita di sensi di colpa: «solo adesso riesco a chiamarlo papà»

Una toccante intervista al Corriere della Sera, un lungo processo interiore: «Ho capito che le persone vanno amate per come sono»

Il figlio di Di Bartolomei e una vita di sensi di colpa: «solo adesso riesco a chiamarlo papà»
1979 archivio Storico Image Sport / Roma / Agostino Di Bartolomei / foto Aic/Image Sport

Sul Corriere della Sera la toccante intervista di Giovanni Bianconi a Luca Di Bartolomei figlio di Agostino l’ex calciatore della Roma che si uccise il 30 maggio 1994 dieci anni dopo la finale di Coppa dei Campioni perduta ai rigori contro il Liverpool.

«Si sparò quando io avevo 11 anni». Lui, il capitano della Roma, Agostino Di Bartolomei. «Ora ho raggiunto e superato il tempo che lui ha vissuto» dice il figlio Luca. «E solo adesso riesco a chiamarlo papà».

«Il 18 agosto dell’anno scorso io, Luca Di Bartolomei figlio di Agostino Di Bartolomei, sono diventato più vecchio di mio padre. Ho raggiunto e superato il tempo che lui ha vissuto, e ho avuto la forza di andare sulla sua tomba a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, di fronte al mare, cosa che non faccio praticamente mai. Ed è stato un altro colpo di pistola, che non mi aspettavo».

Parla di sensi di colpa.

Perché un senso di colpa? Lei era solo un bambino di 11 anni quando suo padre si suicidò.

«Perché non sapevo come reagire a ciò che avvertivo come un rifiuto da parte di Agostino. Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch’io una parte di responsabilità.

In passato lei ha detto di voler credere che lo sparo nel decennale di «una stupidissima partita di calcio» persa ai calci di rigore fosse solo una coincidenza, non voluta. Ora sembra aver cambiato idea.

«È così. Ho accettato l’idea che ci si possa sentire manchevoli anche di fronte all’amore di un figlio e di una famiglia, che evidentemente non bastano a colmare le lacune del proprio animo».

Quindi rievocare la sconfitta nella finale di Coppa dei campioni significava ammettere un fallimento personale?

«Direi di sì. Non ho certezze né prove, ma dovendomi basare su indizi penso che si debba accettare questo messaggio, farci pace e andare avanti. Smetterla di chiamarlo Agostino e farlo tornare papà. In fondo la mia rabbia verso di lui è derivata proprio dal suo considerarsi più Ago che papà; più il campione che aveva fallito l’appuntamento più importante della sua carriera del padre che poteva essere. Però sto capendo che le persone vanno amate come sono, non per come vorremmo che fossero. I figli si amano quando sbagliano e questo deve valere anche per i genitori. Ma per amare persone che sbagliano devi essere in pace con te stesso. Io mi sono sempre sforzato di perdonarlo per quello che mi ha tolto, decidendo di andarsene quando ero ancora un bambino; adesso sto provando ad amarlo».

«Il 30 maggio è papà che scende dalla stanza dove dormiva con mamma e infila qualche moneta nella tasca dei miei pantaloni appesi alla ringhiera della scala; io lo vedo perché ero già sveglio, e quando entra in camera per salutarmi mi chiede se voglio andare con lui a Salerno. Io rispondo di no perché avevo una prova di latino a cui non volevo rinunciare. Poi mi vesto, preparo lo zaino, papà s’era seduto in terrazza al sole che batteva già alto, gli do un bacio. Vado a scuola. Dopo circa un’ora, con molto tatto, mi hanno avvisato di quello che era accaduto e sono tornato casa. Ago era già nella bara di zinco».

Difficile perdonare.

«Molto. E alla fine dei conti, più che perdonare lui sarebbe bastato non colpevolizzare me stesso».

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