È un luogo abbastanza normale, dove le persone hanno vite normali nelle quali, tra le molte faccende, c’è anche il calcio
Qualche tempo fa mi è capitato di tornare a Napoli per qualche giorno, ci mancavo da più di un anno. Ero curioso di capire come gli eventi calcistici degli ultimi mesi avessero potuto influenzarla. Ho passeggiato, aguzzato la vista per scorgere bandiere o striscioni, fatto attenzione ai dialoghi davanti ai caffè serviti nei bar, atteso l’uscita di qualche scolaresca. Ho trovato la stessa città che avevo lasciato, quasi indistinguibile da quella vista tempo addietro.
Non avevo particolari aspettative, ero mosso solo da una piccola curiosità oltre che dalla consueta vena di scetticismo che generalmente mi seguono, nell’attesa di un dato sperimentale che potesse raccontarmi la realtà. La realtà, la vera antagonista delle zone in cui sono nato.
Chi ha svuotato il Maradona, già fu San Paolo, prima dei numerosi tifosi e poi dell’entusiasmo? Né la questura, né il governo, né i posti assegnati, né la tessera del tifoso. È stato il tempo – e, per essere chiari, contro il tempo si può ben poco. Esso cambia le persone e le cose in modi che non appaiono reversibili o semplicemente controllabili.
Sia chiaro: l’oggi non è peggiore di ieri. Non ci fu età dell’oro prima e non c’è età del ferro oggi. Napoli, sia detto per inciso, è pressoché immobile da alcuni decenni. È semplicemente un oggi diverso da quanto molti della mia e di più anziane generazioni hanno in mente, reduci dalle proprie giovinezze che tutti gli uomini ritengono, a torto, irripetibili. Anzi, è questo uno dei problemi apicali del calcio odierno: a commentarlo ci sono esclusivamente tanti vecchietti.
La città di Napoli non vive e respira calcio, come evidente a chiunque vi metta piede da forestiero, nonostante questa formula venga ripetuta col copia/incolla. È un luogo abbastanza normale, dove le persone hanno vite normali nelle quali, tra le molte faccende, c’è anche il calcio. Lo stadio non è stato trasformato in un teatro tramortito (significativo, tra l’altro, l’uso del termine “teatro” con accezione vagamente dispregiativa): è solo che le persone che lo frequentano acquistano i biglietti quando capita o quando hanno dei soldi da spendere in un piacere. Il calcio non è in cima ai pensieri dei cittadini napoletani – e questo, sia detto una volta per sempre, non è un crimine. È solo un ulteriore iato tra realtà e narrazione, questo limbo di vaga astrazione in cui la città vive da mezzo secolo o più e di cui l’idea dei tifosi ultras rappresenta un ultimo disperato tentativo di difesa e resistenza.
Venerdì sera il Napoli di Spalletti ha perso in casa, in una sconfitta non drammatica ma alquanto fastidiosa, imbattendosi contro uno scoglio simile. Di fronte si è ritrovata una squadra autrice di un sapiente catenaccio guidata da un allenatore che ha altrettanto sapientemente modulato la sua carriera tra qualche volata demagogica e più di un legittimo tornaconto personale. L’auspicio è che tutti si faccia finalmente pace con la realtà, si capisca che ciò che abbiamo in testa quasi mai ha a che fare con quanto esiste intorno a noi e che l’alternativa è che la realtà ci freghi. Di nuovo. Con un tiro nello specchio e un gol all’ottantesimo. C’è ampio margine per evitarlo, sapendo che, in tutta la storia dell’umanità, non si ricorda essere umano che, imbattendosi in una lotta contro il tempo, sia tornato vincitore.