Al Fatto: «I calciatori? Per il 90% sono ignoranti e noiosi quando parlano. Nel calcio c’è il più alto concentrato di subdoli, la riconoscenza non esiste»
Sul Fatto Quotidiano una lunga intervista ad Eziolino Capuano firmata da Alessandro Ferrucci. Costretto ad abbandonare il calcio giocato a soli 17 anni per un grave infortunio, a 23 anni Capuano era già allenatore in Interregionale, alla guida dell’Ebolitana. Da lì non si è più fermato e sempre con squadre del centro-sud, tranne
una parentesi nella Serie A del Belgio (l’Eupen, da cui si dimette dopo sole quattro gare per screzi con la dirigenza).
Ma Capuano è noto anche per altro, la fama gli è arrivata soprattutto per uno sfogo dopo una sconfitta in amichevole con l’Arezzo contro il Lucignano: negli spogliatoi apostrofò pesantemente i propri giocatori anche con minacce fisiche. Lo sfogo venne registrato segretamente e poi diffuso via Internet dal giocatore Nicolò Sperotto. Capuano dice:
«La mia fama ha oscurato i meriti da allenatore».
Quest’anno Capuano ha salvato il Taranto dalla retrocessione.
«Per certi versi è stata un’impresa: ho trovato una situazione che poi si è protratta per l’intera stagione, con il pubblico che non è mai venuto allo stadio; ma volevo Taranto e alla mia età la squadra la scelgo io. Me lo posso permettere e non è presunzione».
A Taranto c’era stato già 21 anni fa, fu esonerato. Capuano racconta:
«Con l’età sono maturato; per me l’esperienza è tutto ciò che un essere umano riesce a tramutare da negativo in positivo. Il resto sono cazzate; 21 anni fa ero giovane, avevo già vinto molto, credevo di dover spaccare il mondo, quindi qualche errore l’ho fatto. Venni esonerato in maniera ignobile; il valore mediatico che ho ricevuto, l’essere
diventato un personaggio, da un lato mi ha reso pubblico, dall’altro mi ha penalizzato. Ha piazzato in secondo piano le doti da allenatore».
Si definisce «forte, esuberante, autoritario, autorevole». Racconta la sua vita: famiglia lucana trasferitasi a Salerno quando il padre prese la cattedra all’Orientale di Napoli.
«Ho una discreta cultura, però da ragazzo lanciavo la borsa da calcio dal secondo piano, poi salutavo i miei, ‘vado a studiare’, e invece correvo al campo».
Il padre avrebbe voluto che Capuano si laureasse come i suoi fratelli («uno è diabetologo, tra i più importanti in Italia, l’altro è un dirigente. Mi vedeva avvocato o giudice»).
Perché Capuano non è arrivato alla massima serie italiana?
«Per il mio essere, il modo di pormi, di non accettare compromessi e non lo dico come forma di auto- celebrazione; a un presidente non fa piacere e neanche ai direttori. Ognuno deve restare nel proprio spazio».
Di un giocatore le interessa più la tecnica o la tenacia?
«In assoluto la tenacia; la tecnica è fine a se stessa, fa parte della qualità; la tenacia rientra nell’indole, nel cuore, nella mente. Il giocatore non si costruisce nel rettangolo da gioco».
A Capuano viene chiesto se controlla i suoi giocatori fuori dal campo. Risponde:
«Ho un rapporto un po’ strano con i miei: sono schietto e do indicazioni, se vengo seguito diventi un figlio, se non è così cerco di entrare nella mente, di capire; se non funziona allora ti abbandono. E se ti abbandono, se non ti rompo i coglioni, allora ti devi preoccupare seriamente».
Parla delle sue regole:
«Non voglio orecchini né musica nello spogliatoio e tutti vestiti uguali».
Nella sua carriera Capuano ha scoperto tanti giocatori.
«L’osservatore deve avere l’approccio di un oncologo. C’è chi il tumore lo vede immediatamente e chi deve affidarsi alle analisi. Io lo scopro subito e difficilmente sbaglio; dopo 32 anni di carriera mi rompono i coglioni solo per Mertens».
Di Mertens, ex Napoli, Capuano disse che avrebbe giocato al massimo 7, 8 partite.
Tra i talenti scovati c’è Montella («un fenomeno»), che a 15 anni viveva già lontano da casa. Capuano dice:
«Il vero giocatore deve affrontare i sacrifici; senza sacrifici non si conosce il parametro della sofferenza e senza quel parametro non arrivi in alto».
Distingue tra due tipi di allenatori.
«Esistono due tipi di allenatori: quello che lavora per se stesso, seguito dai calciatori, per il 90 per cento ignoranti,
quindi gli parla di possesso palla, di due tocchi, tre tocchi, tiki taka, partenza bassa, e tutti a dire ‘come gioca bene
questa squadra’. Quell’allenatore pensa a mettersi in mostra».
Poi c’è il vero allenatore:
«Il vero allenatore si adatta ai giocatori a disposizione, cerca di costruire il giovane».
Di sé, Capuano dice:
«Sono razionale e intelligente e come un pittore realizzo un quadro secondo i colori che trovo. È una nuova metafora».
Dovrebbe tenere un corso per i calciatori di Serie A:
«Quando parlano sono spesso noiosi. Sono ignoranti, ripetono sempre le stesse cose, bla bla bla…».
Uno schiaffone lo ha mai dato? Capuano:
«Chi usa le mani è un bandito e un bastardo».
Qualche giocatore ha provato a darglielo?
«No, perché se ci provi poi devi avere le palle ottagonali».
La riconoscenza esiste?
«Non c’è nella vita, può esistere nel calcio dove c’è il più alto concentrato di subdoli?».
Sesso prima delle partite? Capuano:
«Dipende se uno fa l’amore o le prestazioni. Lo sanno. Ma se uno lo fa sul bidet o sul lavandino, non va bene».
Con i giocatori bisogna essere più psicologi, maestri o parenti?
«Psicologi, parenti mai».
È più difficile gestire la sconfitta o la vittoria? Capuano:
«La vittoria; la sconfitta l’affronto durante la settimana».
Come era Capuano da bambino?
«Estroverso, litigavo con tutti, ero un matto. Papà era preoccupato, mi ha dato tante botte. Mamma mi difendeva sempre. A scuola ero intelligente, ma copiavo dal più bravo: se non mi dava una mano erano casini. Il professore di Storia un giorno mi disse: ‘Tutto ti puoi inventare, non la Storia’. Creavo».