L’estenuante attesa degli ultimi napoletani-giapponesi che si ostinano a non festeggiare: senza aritmetica non vale. La fuga ha diluito l’esplosione, ma non la felicità
C’è chi, ne conosco almeno un paio, si rifiuta di festeggiare. Si dibatte come un tonno tra tinello e cucina, calcola e ricalcola i conti dello scudetto. Come succede, quando succede, in mancanza del “se” che Napoli ha tolto dall’equazione alla faccia della scaramanzia che continuano a raccontare endemica. Non è salito su uno scooter, in due in tre, senza casco. Non è sceso in strada alla fine di Juve-Napoli. Non è andato all’aeroporto alle 3 del mattino. Perché c’è già passato: quando Koulibaly in quello stesso stadio, quasi allo stesso minuto, segnò il gol scudetto dello scudetto che non sarebbe arrivato più, rotolò in strada. Tornò a casa per colazione, i figli chiedevano dove fosse finito papà, la moglie non gli parlò per tre giorni. Sono ferite, cicatrici dell’anima. C’è chi pensa al menù di domenica prossima: che cuciniamo mentre la Lazio potrebbe vidimare – fottuti calcoli alla mano – l’aritmetico sigillo? Il ragù? Una pasta e patate con la provola? Uno spaghetto a vongole? La mattina andiamo al parco, magari… ma quale parco? Tutto, TUTTO, per non pensarci. Per darsi la possibilità di restare folgorati dall’attimo in cui potrà liberarsi. Un fischio finale, un arbitro che dice basta è finita, la Lazio non ha vinto, la messa è finita, potete andare in pace grazie a dio.
No, non prima d’allora. E sono settimane, mesi che Napoli festeggia cercando di darsi al contempo quasi un pudore che non ha. Il dominio assoluto di questo campionato s’è trasformato in una fuga, regalando al contesto un tempo infinito per pensarci, razionalizzare l’idea che il Napoli avrebbe vinto lo scudetto. Di prepararsi ad un evento che ha cominciato a vivere nel momento della sua preparazione. Di rivendere l’attesa ai turisti, a monetizzarla. I panni stesi dei Quartieri sostituiti dai santini di Osimhen e Spalletti, l’indotto delle bancarelle, la processione degli stranieri al santuario di Maradona, il sogno bagnato di Federalberghi nella primavera che sboccia a tema. I risultati hanno diluito le celebrazioni. E’ diventato faticoso trattenersi, la gente ha ceduto un po’ alla volta, un’euforia a lento rilascio. Ma in autoalimentazione esponenziale.
Certo, la vittoria oltre il novantesimo nello stadio della Juventus ha rotto l’ultimo argine. Per simbolismi, rivalità, rappresaglie. E per evidenze matematiche che non temono più alcuna cabala. E’ passata dunque la nottata della pre-festa, un prequel. Con tutto il repertorio a disposizione, persino i giocatori in canotta sul tetto del bus. Loro a riprendere con gli smartphone i tifosi che li riprendevano con gli smartphone, in una produzione incrociata di feticci video da tramandare sui social seduta stante. Perché non è più come negli anni 80, questo – 33 anni son passati – è lo scudetto nell’era della sua riproducibilità tecnica, anzi quasi maniacale. Non c’è possibilità di attenersi alla sacralità dell’attesa, a meno di non ritirarsi in un convento irpino possibilmente senza wifi.
Resta filosoficamente inteso che un punto dev’esserci, un orario, una data da tramandare ai posteri. Una linea tirata su questa estenuante felicità un po’ slabbrata. Perché senza non vale. Sia una Salernitana, Lazio-Inter in contumacia, addirittura Udine, lì fuori nella giungla s’annidano gli ultimi napoletani-giapponesi: aspettano che qualcuno li liberi dall’attesa. La guerra è finita, abbiamo vinto lo scudetto. Dirlo ad oltranza, per farsene tutti una ragione, conti o meno alla mano.