C’è una minoranza silenziosa, che sa cantare all’occorrenza, ma soprattutto è dotata di ragione, ha idee e accudisce un obiettivo condiviso: il bene del Napoli
Caro Direttore, l’onestà intellettuale che riconosco a te (una dote di famiglia: la genetica non è un’opinione) e alla tua testata mi spinge a intervenire in merito alla questione sollevata dall’editoriale denso e stimolante di stamattina.
Al di là di quella che leggo come una intelligente provocazione, confesso di non riuscire ad accettare l’ipotesi di un Napoli che debba giocare lontano da Napoli, per quanto l’aria respirata ieri allo stadio mi sia sembrata mefitica e quasi insopportabile.
Anche io, calcisticamente parlando, faccio parte di una élite: è quella dei privilegiati che da mezzo secolo e oltre passano la domenica (si fa per dire) allo stadio, che hanno avuto la gioia di vedere giocare Sivori e cui oggi brillano gli occhi per Osimhen e Kim, nuovi attori di un bel film mai interrotto. Abbiamo palpitato, nel frattempo, per Clerici, Krol, Maradona e Cavani, ma anche per Monticolo, Bogliacino e Graffiedi. Sempre con la stessa emozione addosso. È l’unica élite, questa, alla quale personalmente riconosca una credibilità, perché non si alimenta di presenzialismo e di protagonismo, ma di passione. Soffre, ama, dunque tifa senza esibizionismi. Una minoranza silenziosa, che sa cantare all’occorrenza, ma soprattutto è dotata di ragione, ha idee e accudisce un obiettivo condiviso: il bene del Napoli, che poi è il proprio; andare controsenso sarebbe masochismo.
Sotto questo profilo, l’élite sana cui faccio riferimento, meno sparuta di quanto si pensi, si colloca lontanissima dalle ragioni (che la ragione non conosce) degli spettatori “organizzati” delle curve; non le riconosce e non le vede neppure. L’élite sta con la squadra (i romantici direbbero “con la maglia”) e inevitabilmente con chi la rappresenti in maniera corretta. Al presidente attuale, assecondando una riflessione “di testa”, l’élite riconosce il merito enorme di avere creato, in un contesto complicato, un modello sostenibile e vincente di azienda calcio. La “pancia”, ché pure quella ha una voce, da parte sua adduce motivi di doglianza non tutti astratti (l’equiparazione dei due anelli dello stadio in termini di costo biglietti sa molto di provocazione, ammettiamolo; e sul bando selettivo alle bandiere si dovrebbe meditare), ma nulla giustifica l’atteggiamento becero e ostile messo in atto non da ieri con fini dichiaratamente ricattatori, oltre che clamorosamente autolesionistici. Laddove le ferite non rimandano solo alla classifica, ma all’immagine pubblica, che non è un lusso, ma elemento identitario imprescindibile. In questa luce livida, altro che azzurra, i preparativi per la festa – comunque esecrabili e intempestivi – rappresentano non più un momento di attesa eventualmente plausibile, ma un atto incoerente, totalmente svincolato dalla realtà, una pulcinellata di cui si farebbe a meno volentieri; un altro gesto di protagonismo autoreferenziale, insomma, messo in pratica dalla maggioranza rumorosa (e non sempre tifosa).
Il contributo alla strepitosa stagione in corso offerto da quella parte della Città mossa dalla pancia, ma mal regolata da una testa che non funziona, appare praticamente nullo, come scrive “il Napolista”. Io però mi ostino a credere che quella non sia la parte più significativa della Città e della tifoseria, non è la più interessante e neppure la più rappresentativa; è soltanto la più chiassosa, nonostante abbia smesso di cantare.
Viviamo una fase storica funestata dall’imperversare dei megafoni e delle urla, in qualsiasi ramo del vivere civile, in qualsiasi ambito mediatico. Ed è paradossale che, in uno stadio, nulla faccia più rumore del silenzio. Lo stadio, appunto, è il contenitore nobilissimo che alla passione dovrebbe dare rifugio e forma, non dettarne la sostanza. Che, invece, è data da migliaia di storie dignitosissime di persone che soffrono, amano, gioiscono, vivono per il Napoli e testimoniano questo impegno con una presenza attiva, militante, forte senza essere inutilmente urlante. Persone, spesso, che neppure avvertono il bisogno di proclamare il proprio appoggio al presidente, non per ignavia, ma perché consapevoli che il proprio senso consolidato di appartenenza si elevi oltre il gioco delle parti contrapposte.
Nel meccanismo perverso che ci chiama a strillare, più forte dell’altro, persino per affermare un’aurea normalità, personalmente stento a entrare; forse è solo una questione di età, e trent’anni fa lo avrei fatto. Adesso, con una storia azzurra inequivocabile alle spalle, mi piacerebbe che il valore di un traguardo apparisse naturalmente più virtuoso e sensato di una gara volgare all’insegna del protagonismo. In tanti stiamo aspettando di tagliare quel benedetto traguardo per poi sbattere in faccia al mondo, finalmente ad alta voce, la felicità inseguita a lungo. Io, però, voglio farlo nel nostro stadio, ché non esiste un altro contenitore possibile per tanta gioia.