Non capire la violenza dello slogan “Napoli siamo noi” è già misura del vergognoso stagno morale in cui si trova l’intera città
Sono diversi secoli che Napoli fa ostaggi. L’ultimo, in ordine cronologico, è quello denunciato dall’allenatore della squadra di calcio cittadina: la sua rosa. Quella di atleti, ottimi professionisti, ragazzi sensibili e primi in classifica, che nulla hanno sinora chiesto al pubblico pagante e che pure ne sono divenuti merce di riscatto – come ogni altra cosa, negli scorsi trecento e più anni, abbia provato a farsi disperatamente strada tra le mura cittadine finendo per mendicare sempre nulla altro che una tregua.
Il popolo napoletano, a quanto pare, possiede l’innata capacità di saper inventarsi la giornata, richiede spirito di sacrificio e attaccamento alla maglia eppure non sa compilare un modulo per autorizzare uno striscione sugli spalti e, dopo aver lamentato per anni l’assenza di necessarie latrine allo stadio, a valle di un trentennio di attesa, non trova di meglio che disquisire della natura ignifuga delle bandiere. È roba che, quando si cerca di rendere in qualsivoglia altro contesto civile, nazionale e internazionale, rimane intraducibile. Non comprensibile. Eppure costituisce uno stigma del quale, se sei testimone una volta, hai il terrore di divenire portatore per sempre. È questo ciò che ha detto l’allenatore. Ed ha aggiunto: mi alzo e me ne vado. Benvenuto. Uno dei milioni.
Si badi bene – non è Napoli a essere ostaggio. È Napoli a farne. A creare i legacci che servono a piegare ogni discorso, a dire “Napoli siamo noi”, facci i conti. Altrimenti. Non capire la violenza di questo assunto è già misura del vergognoso stagno morale in cui si trova l’intera città.
E non si lasci scivolare il discorso, proditoriamente, sul piano quantitativo – come cerca di fare la solita pigrissima intellighenzia cittadina – affermando che è un manipolo; che chiedono solo uno spazio; che rivendicano il diritto, e diamoglielo. È da quando suonava la Carmagnola che Napoli contrabbanda il termine “popolo” con la fisiologica necessità di infrangere un contratto sociale per assicurare una serena convivenza a tutti. È noto, ma fare i dandy liberali in città costa due soldi ed è un investimento sicuro, come un garage sotto casa.
Per chi scrive, se dovessimo trovare una sola, unica e finale differenza tra chi fa ostaggi e chi, da ostaggio, decide di alzarsi e andar via, è che i secondi non pretendono di rappresentare nulla e nessuno in particolare. I secondi non dicono “Napoli siamo noi” perché la ridicola assurdità di questo slogan ha a che fare più con una richiesta d’aiuto che con un programma di tifo, tanto da valere quanto l’urlo che si ascolta in tre quarti di stadi italiani, dove si ribadisce che quelli che cantano napoletani non sono. Questa fondamentale differenza, tra chi urla cosa è o cosa non è e chi invece guarda una partita senza rappresentare niente, si declina nel termine libertà – una parola che, per certi versi, prese le mosse da questa stessa malmessa città ed oggi viene surrogata nel gesto di suprema ribellione di chi lotta per avere la parola finale sul materiale della propria bandierina.
Le parole di Luciano Spalletti sono state molto, molto tristi. Tanto che la gioia monadica, isolata, solitaria che spero di vivere sembra possa bastare appena a stordirne l’amarezza, come fa un buon bicchiere di vino.