Al Messaggero: «Me la sono vista brutta spesso. Quando mi insultavano per come mi mostravo mi salvavo con l’italiano forbito. Li spiazzavo, e mi lasciavano stare».
Su Il Messaggero un’intervista a Renato Zero. I 24 concerti del nuovo tour Zero a Zero, partito il 7 marzo da Firenze, hanno totalizzato finora 280 mila spettatori paganti.
In questo tour c’è qualcosa che l’ha stupita? Zero:
«Ovunque vada, nei miei confronti c’è quasi devozione. I giovani mi chiamano maestro, gli anziani mi vedono e si commuovono… Mi sembra incredibile, però mi piace. Prendo questo affetto come la croce da Gran cavaliere che nessuno mi ha mai dato».
Zero si lamenta di non essere abbastanza considerato dalle istituzioni.
«Lo Stato non partecipa alle sventure e ai trionfi degli italiani, riscuote e basta. La meritocrazia è del tutto ignorata. Con la mia musica non mi sono mai sottratto per cambiare in meglio questo Paese: a 17 anni, per esempio, ho scritto Qualcuno mi renda l’anima contro la pedofilia. Quindi un riconoscimento per tutto quello che ho fatto penso di meritarlo».
A Zero viene chiesto come vede l’Italia.
«Il Sud è completamente al buio, gli hanno staccato il contatore. Da Roma in giù siamo tutti extracomunitari. La
mia città così in basso, io che sono nato nel 1950, non l’ho mai vista. E mi manca anche quella Roma puttanona che si dava a tutti, sorrideva e aveva sempre la battuta pronta».
Zero racconta le difficoltà vissute durante la sua vita, per il suo modo di vestirsi e presentarsi in pubblico.
«Sono stato fortunato, oltre che paziente e accomodante. Alla fine degli Anni ’60 uno come me non s’era mai visto. Me la sono vista brutta spesso. Quando mi insultavano per come mi mostravo mi salvavo con la dialettica. A chi mi voleva picchiare chiedevo: “Perché mi odi? Che cosa ti ho fatto? Ragioniamo”. Glielo dicevo in italiano forbito, li
spiazzavo, e mi lasciavano stare».
È sempre andata bene? Non sempre, racconta Zero.
«No. Un giorno, mentre facevo l’autostop, scese uno dall’auto, si avvicinò, e senza dire una parola mi diede uno sganassone fortissimo. Rimasi come un deficiente, steso per terra. Mi fece volare la parrucchetta rossa che mi ero messo in testa. Me ne tornai a casa sconsolato. Non era serata».
La peggiore?
«Un giorno, con un’amica, facendo l’autostop ci caricarono tre ceffi: io andai dietro, in mezzo a due, lei davanti. Quello che guidava si mise a tastare le cosce di Rita, che gli disse di smetterla. Io, da dietro, feci il duro: “Lasciala stare che mi incazzo!”. Quello si girò: “Statte zitto che te se cucinamo pure a te”. Rita aprì lo sportello e fece per buttarsi in corsa. Rimasero così impressionati che ci fecero scendere a calci».