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Schwazer: «Per la Wada, anche davanti all’evidenza contraria, è sempre l’atleta a sbagliare»

A Sportweek: «Devono difendere a tutti i costi il sistema. La Pechstein è stata squalificata per due anni anche se loro stessi hanno certificato l’errore».

Schwazer: «Per la Wada, anche davanti all’evidenza contraria, è sempre l’atleta a sbagliare»
archivio Image / Sport / Alex Schwazer / foto Imago/Image

Su Netflix è in onda la docuserie in quattro episodi dedicata a “Il caso Alex Schwazer“, prodotta da Indigo Stories. Schwazer parla della serie e della sua vita in un’intervista a Sportweek.

«Mi sveglio intorno alle cinque e mezza. C’è da portare mia figlia Ida all’asilo. E così quello è l’unico momento per il mio allenamentino. Corsa: a volte qualche variazione, a volte 10 chilometri in 32-33 minuti. Allenarmi per me è una necessità».

Sulle pareti della sua casa che cosa c’è di sportivo? Schwazer risponde:

«Niente. Neanche una cosa. Le mie medaglie sono dai miei genitori. Quella di Pechino in banca».

Schwazer parla del suo allenatore, Sandro Donati.

«E pensare che siamo pure diversi: lui è uno che è sempre in battaglia, tutta la sua vita è stata così, io no. Ma c’è un grande rispetto e ci troviamo comunque bene. Com’è successo con il mio avvocato Gerhard Brandstaetter e la mia manager Giulia Mancini, abbiamo attraversato insieme momenti molto intensi: queste cose restano, non siamo di ghiaccio. Con Sandro abbiamo vissuto momenti di incubo: ma lui, dal primo all’ultimo, c’è sempre stato: non lo dimenticherò mai».

Nella serie di Netflix, Oliver Niggli, direttore generale della Wada, dice che Donati «è stato una vittima di Schwazer». L’atleta commenta che effetto gli ha fatto sentire quella frase.

«Nessuno. Loro devono difendere a tutti i costi il sistema. Pensate a Claudia Pechstein, la pattinatrice su ghiaccio cinque volte d’oro alle Olimpiadi. È ormai chiaro che si è trattato di un errore, persino certificato dai loro esperti. Lei è stata squalificata per due anni per niente. Ma il sistema è fatto così: è sempre l’atleta che sbaglia. Sempre».

Nel documentario Schwazer racconta del buio degli anni dopo Pechino. Questo buio non è provocato proprio da quello che traspare dai suoi racconti, la vittoria è tutto, dal secondo posto in poi è niente? Non è proprio questo che ha costretto Simone Biles, Naomi Osaka, ora Adam Peaty ai box?

«Non credo sia una questione di vittoria. Io ero stanco della marcia, ma nella mia mente dovevo fare sempre di più. Se un anno avevo fatto 9000 chilometri l’anno dopo ne dovevo fare 9500. Un vostro collega ha scritto che sono bipolare, macché bipolare: vivi tutta la vita come un atleta che progredisce sempre e a un certo punto questa costruzione non tiene più. Allenamento-pasto-riposo va bene a 20 anni, a 22, ma poi vuoi capire come uomo cosa c’è nella vita».

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