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«Dittatore del tiki-taka, non tira mai in porta». Così la Spagna ha detto addio a Luis Enrique

Appena sei mesi fa è stato massacrato in patria. A Roma visse un anno bruttissimo, disse: «Che cosa ho fatto di male per meritare tutta questa merda?»

«Dittatore del tiki-taka, non tira mai in porta». Così la Spagna ha detto addio a Luis Enrique
Spain's coach Luis Enrique reacts during the Qatar 2022 World Cup round of 16 football match between Morocco and Spain at the Education City Stadium in Al-Rayyan, west of Doha on December 6, 2022. (Photo by Glyn KIRK / AFP)

Luis Enrique, dunque. Il nome di oggi che pare aver superato le correnti gravitazionali delle “nomiadi” napoletane: i giochi olimpici del dopo-Spalletti. Pare “Indovina chi?”: ha la barba, è calvo… è Richard! Oggi il prossimo allenatore del Napoli è Luis Enrique. Levatura internazionale, ex ct della Spagna, scuola Barcellona, una Champions ed altro in bacheca, con un passato da bullizzato a Roma. Al netto della comprensibile fascinazione ambientale, l’appeal di Luis Enrique va però contestualizzato. E per farlo basta sfogliare i giornali spagnoli di scarsi sei mesi fa. Il post-Mondiale in Qatar.

El Mundo, uno dei più autorevoli e morigerati quotidiani spagnoli, l’eliminazione della Spagna l’aveva presa benino. E del ct scriveva:

«Luis Enrique è un pover’uomo, un dittatore brutta copia di Guardiola»

L’editoriale firmato da Juliàn Ruiz era violentissimo. Lo definiva come “un allenatore pazzo delle sue decisioni, con il suo complesso illuminato, le sue scelte egoistiche e una testardaggine supina. Un tecnico arrabbiato, dittatore e poco socievole, apprendista stregone di Guardiola, che imita persino Pep, anche quando si china. Ma la copia è pessima.

Unai Simón non parava? Tutta colpa di un tecnico che crede di saperne molto purtroppo, per il nostro Paese, quando è un pover’uomo, un uccello impaurito di volare”.

Nella sostanza, ed è il punto forse che dovrebbe preoccupare il tifoso napoletano, era la tattica il problema. Il “possesso palla” agonistico. Una volta si chiamava tiki-taka: “Il tocco, dopo il tocco, con altri tocchi”.

Quella Spagna fu eliminata dal Marocco dopo 120 minuti senza mai un tiro in porta. Marca scriveva: “Non avrebbe dovuto arrivarci in nessun momento, ai rigori. La selezione era invischiata nella sua solita razione di passaggi. Non è un luogo comune: senza tirare in porta non puoi vincere una partita”.

E Luis Enrique nel frattempo dettava conferenze stampa così: “Il risultato conta zero per me”. O così: “Mi sento molto meglio a gestire i problemi, sono proprio uno stronzo. Mi sento più a mio agio quando devo costruire una squadra, quando tutto è contro di me, è lì che esce la mia vena gijonese, asturiana… Più vogliono affondarmi, più il mio coraggio viene fuori”.

E allora sempre El Mundo, sempre Juliàn Ruiz, affondava: “Luis Enrique è un egocentrico con un complesso di inferiorità che ha disunito tutti i tifosi, tutte le persone che amano il calcio in maniera moderata. È una perversione calcistica”.

As invece la prendeva dal verso dei numeri. Il di lì a poco ex ct della Spagna deteneva il peggior record di vittorie della nazionale. Peggio di lui solo Hierro, ct ad interim durante il Mondiale in Russia: “Il bagaglio di Luis Enrique in termini di percentuale di vittorie con la Roja è il secondo peggior record degli ultimi 30 anni“. In 49 incontri disputati sotto la sua guida sono solo 28 le vittorie, 14 i pareggi e 7 le sconfitte, solo il 54% di successi.

Il possesso palla, poi, va sempre a braccetto con la famigerata costruzione dal basso. El Pais, non proprio l’ultimo scalmanato dei tabloid, ne sentenziava la degenerazione, l’abuso: “Da Italia 90 in poi, al portiere è stato vietato di prendere la palla con le mani quando un compagno di squadra gliel’ha consegnata con i piedi. Il tifoso soffre quando il suo portiere lo fa, si eccita quando il portiere avversario lo fa. In squadre come la Spagna di Luis Enrique (o qualsiasi altra di Guardiola) è la legge: nemmeno nella peggiore emergenza il portiere è autorizzato a lanciare via il pallone per liberarsi di un problema“.

Ora l’idea  – non si sa lui come la pensi, in verità. Pare non gliel’abbiano ancora nemmeno chiesto… – sarebbe quella d’una rivincita. L’Italia ripartendo dalla squadra campione d’Italia. Quella bella bellissima, filosoficamente pronta ad accoglierlo. Per rifarsi dei dieci anni di vita buttati a Roma. Ne scrisse Giancarlo Dotto, di quel trauma: Il passaggio a Roma fu un calvario. Che nel tempo Lucho ha imparato ad amare, come tutte le cose che lo hanno aiutato a crescere. Un (fragile) marziano a Roma. Ridotto a una larva dal massacro di una piazza che sa essere feroce come poche. «Sto male», disse una volta pubblicamente e si capì che stava male veramente. Aveva detto: «Voglio dare il gioco alla Roma e la gioia ai suoi tifosi». Non ci riuscì. Se n’è andato per consunzione. Invecchiato di dieci anni. E fu solo un anno, un anno di troppo. «Che cosa ho fatto di male per meritare tutta questa merda?» disse”.

Per convincerlo ad affrontare cotanto passato servirebbe una squadra con ambizioni europee, un presidente seducente, magari un pranzo a Capri… Indovina chi?

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