Al CorSera «Avevo bisogno di lavorare e non ero schizzinosa. In Algeria non esisteva la distinzione tra film di serie A e di serie B».
Il Corriere della Sera intervista Edwige Fenech. Nata nel 1948 ad Annaba, nell’allora Algeria francese, è francese
naturalizzata italiana. Ha all’attivo una settantina di film da attrice, molti da star della commedia sexy e una trentina da produttrice. La Fenech racconta il suo primo contratto per “Samoa, regina della giungla”, aveva 18 anni.
«Arriva un telegramma: contratto pronto da firmare a Roma stop. Ci ritrovammo a Cinecittà, un mondo a noi totalmente estraneo, io non parlavo italiano. Mi dissero di firmare dove c’erano le crocette. Il film era Samoa regina della giungla. Avevo capito solo che sarei stata una specie di Tarzan in gonnella. Tutte le mattine, mi spalmavano di crema marrone. La sera, per ripulirmi, mamma impiegava un’ora e mezzo».
Dal 2015 la Fenech vive in Portogallo.
«Ho sentito il bisogno di cambiare aria. Ero un po’ delusa da come andava la carriera: non mi vedevo in Italia ad aspettare che arrivasse un ruolo giusto per me».
La Fenech continua:
«Sono uscita di scena al momento giusto e volevo tornare nel modo giusto. In questi anni, ho rifiutato tante proposte. Ma era importante tornare solo se potevo esprimere qualcosa di forte».
Alla Fenech viene chiesto quando ha capito che piaceva e che piacere era una risorsa. Risponde:
«Ci ho messo molto tempo, purtroppo. Mamma mi ripeteva: perché sei piena di complessi, perché? E io: perché le altre sono tutte più belle di me. Quando mi stabilii in Italia, avevo 19 anni, ma la testa di una bambina».
Girava anche sette, otto film l’anno, era solo per soldi?
«Avevo bisogno di lavorare e non ero schizzinosa, anche perché in Algeria non esisteva la distinzione tra film di serie A e di serie B».
Quante docce ha fatto nei film?
«Preferivo le docce alle scene d’amore. Dopo ho avuto la fortuna di cambiare carriera, ma non rinnego niente: alcuni film cosiddetti erotici erano carini, ben fatti, con attori bravissimi».
Nel 1999 è diventata produttrice.
«Ma ho recitato solo nei primi due film. Dopo, ho preferito imporre altre donne, perché, per me, impormi era stato difficile. La carriera da produttrice mi è piaciuta, anche se per le preoccupazioni non dormivo la notte. Non ho avuto le porte che si aprivano da sole, ma ho dovuto spalancarle a testate».
Le rivincite che l’hanno gratificata di più? La Fenech:
«Il successo di Commesse, che la Rai aveva tenuto due anni nel cassetto temendo che una storia di sole donne non piacesse. E altre serie tv come Le madri, Delitti privati e anche dei film che hanno avuto risultati clamorosi».
Un rimpianto?
«Non aver fatto la Gradisca di Federico Fellini in Amarcord. Mi portava a pranzo dalla sua cuoca, Ubalda, per cui lui mi chiamava Ubaldina, e mi diceva: Ubaldina, devi ingrassare per il film. Alla fine, prese Magali Noël, più matura e formosa di me. Ma io non riuscivo a ingrassare: ero giovane, bruciavo tutto quello che mangiavo».
Che cosa pensò la Fenech quando scoppiò il MeToo?
«Che finalmente qualcuno denunciava. Ai miei tempi, la parola di una ragazza non aveva valore. A me è successo più volte di essere molestata da chi aveva il potere di farmi lavorare e non ho denunciato: chi mi avrebbe creduto? Però, anche in situazioni pesanti in cui ho corso il rischio di essere violentata, sono riuscita a uscirne indenne: ho un riflesso col ginocchio che è una roba micidiale. Alle attrici di oggi consiglio di mirare col ginocchio dove sappiamo».
Quanto erano vere le leggende sui corteggiatori che regalavano alla Fenech Maserati o mandavano elicotteri che lei rifiutava?
«Sono cose di una vita fa… Un armatore greco aspettò a lungo il mio arrivo in porto, che non ci fu mai. E ho avuto casa riempita di rose antiche, non ci si camminava e il profumo stordiva».
L’armatore era Stavros Niarchos. E lo spasimante delle rose?
«Non lo dirò mai».