I due stereotipi che condizionano il dibattito. Il suo Barcellona (che vinse il triplete) era verticale, poi in Nazionale ha esasperato le sue idee
Chi è Luis Enrique
L’indiscrezione/suggestione per cui Luis Enrique potrebbe diventare il nuovo allenatore del Napoli ha acceso la fantasia di molti. Per tanti motivi. Il primo, inconfutabile da ogni angolazione, è che stiamo parlando di un personaggio di grande spessore. Al di là della consistenza umana e della profondità della sua cultura, Luis Enrique sarebbe il quarto tecnico di sempre che verrebbe – o tornerebbe – a lavorare in Serie A dopo aver vinto la Champions League all’estero. Curiosamente due di questi allenatori sono stati assunti proprio dal Napoli di De Laurentiis, e si tratta di Benítez e Ancelotti – l’altro è José Mourinho.
Un altro aspetto che alimenta l’hype intorno al possibile matrimonio Napoli-Luis Enrique sta nel fatto che parliamo di un allenatore considerato radicale e quindi profondamente divisivo. Come dire: il suo arrivo alimenterebbe con costanza il dibattito tattico-culturale su tutti i media napoletani. Inoltre parliamo di un uomo pure abbastanza spocchioso – per non dire urticante – nelle sue manifestazioni con il mondo esterno. Per dire: sul suo profilo Twitter, prima dei Mondiali 2022, era comparso lo screen di un file Excel, presumibilmente compilato in prima persona, che evidenziava come la Spagna avesse avuto risultati migliori rispetto a tutte le altre Nazionali Uefa nei tornei disputati tra il 2020 e il 2022, comprese le qualificazioni ai Mondiali. Poi in Qatar è andata come sappiamo.
Allo stesso tempo, però, parliamo di un rivoluzionario: le sue dirette Twitch durante i Mondiali hanno segnato un prima e un dopo nella comunicazione durante il torneo calcistico più importante e seguito al mondo. Infine, ma non in ordine di importanza, ecco l’argomento principale di questo articolo: Luis Enrique è considerato perfetto per allenare il Napoli in virtù di una profonda aderenza tattica tra la rosa/squadra campione d’Italia e la sua filosofia di gioco. Ma questo assunto è davvero tale? Questa corrispondenza esiste davvero? Diciamo che le cose non sono così semplici. Ma andiamo con ordine.
Debunking sul Napoli
Iniziamo dal Napoli. E iniziamo in modo netto, anzi brutale: l’immagine che il mondo ha della squadra azzurra è, come dire, a dir poco stereotipata. Né più né meno rispetto all’immagine della città. Ricordate quel vecchio e geniale sketch di Massimo Troisi – questo – su Napoli presentata e venduta come un luogo in cui c’è sempre il sole, in cui tutti cantano e in cui si mangiano solo pizza e spaghetti? Ecco, allo stesso modo il Napoli viene raccontato come se potesse giocare soltanto in un certo modo: costruendo dal basso e tenendo il pallone in modo ossessivo-compulsivo, praticando il tiqui-taca o comunque un possesso ridondante e avvolgente. E allora chi meglio di Luis Enrique, uno dei pochi eredi riconosciuti di Pep Guardiola?
La realtà è diversa. Per quanto riguarda Luis Enrique, e ne parleremo. Ma, come anticipato, per quanto riguarda il Napoli quelli relativi alla dittatura del possesso palla sono degli stereotipi veri e propri. O meglio: solo una parte della realtà coincide con questa narrazione. In effetti la squadra di Spalletti non ha vinto solo il campionato di Serie A, ma anche quello del possesso palla: la percentuale media per match è del 62,2%, una quota decisamente più alta rispetto a quella della Fiorentina seconda (56%), dell’Inter terza (55%) in questa particolare graduatoria. E di tutte le altre, ovviamente. Questo numero, però, non basta a identificare il Napoli come squadra orizzontale. Ci sono altri numeri, molti altri numeri, che vanno in una direzione molto diversa.
Eccoli i numeri in questione: oltre a essere primo in Serie A per passaggi corti tentati (292 per match), il Napoli è primo anche nella classifica dei passaggi medi, ovvero quelli tra i 13 e i 25 metri (243 per match); inoltre cerca il lancio lungo più di 25 metri per 73 volte a partita. Inoltre, come se non bastasse, la squadra di Spalletti è addirittura ultima in Serie A per palloni giocati nella propria area di rigore e sestultima per tocchi nella propria trequarti difensiva. Cosa vuol dire tutto questo? Semplice: che il Napoli è una squadra che costruisce dal basso, certo. Ma poi va in avanti. Anzi: corre in avanti. Altro che orizzontale: gioca in verticale, cerca costantemente la profondità. Cerca Osimhen, Kvaratskhelia e Lozano (quando c’è).
Oppure cerca Politano. Che, a sua volta, lancia subito su Osimhen.
Luciano Spalletti è stato eccezionale proprio in questo aspetto. Ha saputo mescolare con sapienza due stili di gioco, e alla fine ne è venuta fuori una squadra ibrida. Ma non in negativo: nel caso del Napoli, ibrida vuol dire imprevedibile, capace di variare, quindi incontrollabile nelle sue migliori giornate. In teoria, per esempio, Lobotka e Osimhen sarebbero due giocatori incompatibili. E invece l’allenatore del Napoli ha saputo creare le condizioni per esaltare il talento di entrambi. Partendo da punti comuni – per esempio una difesa sempre proattiva per non dire aggressiva – ma impostando la fase offensiva con una doppia anima. Come Harvey Dent/Due Facce nei fumetti di Batman: orizzontale e verticale. Prima orizzontale e poi verticale.
È questa la forza del Napoli campione d’Italia 2022/23, e perciò radicalizzarlo in una sola direzione – qualsiasi essa sia – potrebbe essere dannifico. Certo, l’eventuale arrivo di un tecnico amante del possesso orizzontale e l’impatto con le sue idee sarebbero degli eventi da bilanciare con il mercato, con gli addii e i nuovi arrivi nella rosa. Per dirla brutalmente: un’ipotetica cessione di Osimhen cambierebbe le carte in tavola, fatalmente costringerebbe il Napoli a essere una squadra meno verticale. Le cose potrebbero cambiare di nuovo in base alle caratteristiche del suo sostituto, che sia interno (Raspadori? Simeone?) o che venga da fuori.
Ma a questo punto, assimilato e compreso il nuovo dna del Napoli (nuovo solo per chi pensa ancora che la squadra azzurra debba necessariamente giocare un calcio di possesso orizzontale, quando invece ha vinto uno scudetto con un approccio diverso), ha senso chiedersi se è sovrapponibile col calcio di Luis Enrique.
L’ultimo Luis Enrique
Rispetto al Napoli, il tecnico asturiano ha un passato recente decisamente meno fluido, più rigido e più radicale. Tutti ricordiamo la sua Nazionale spagnola agli ultimi Europei e agli ultimi Mondiali: la Roja era una squadra dal possesso percussivo e stordente, spesso esasperato. Per ora non riportiamo i dati, non ce n’è bisogno. Bastano i ricordi, in certi casi. Anche perché a corredo ci sono le parole e i risultati. Per esempio quelle durissime riservate al tecnico asturiano da El País, in un editoriale velenoso – ben oltre il limite della sgradevolezza – in cui è stato definito «dittatore del tiqui-taca, un allenatore che non fa mai tirare in porta le proprie squadre».
Come anticipato, anche i riscontri non sono stati proprio esaltanti: al netto dell’ottimo rendimento nelle qualificazioni e in Nations League, quello rivendicato nel post su Twitter di cui abbiamo parlato in precedenza, agli Europei 2021 e ai Mondiali 2022 la Spagna di Luis Enrique ha vinto soltanto due partite nei 90 minuti regolamentari. Tra l’altro contro Slovacchia e Costa Rica, non proprio due corazzate. In molti, non solo a El País, hanno fatto risalire le sconfitte e i pareggi all’incapacità di rifinire e finalizzare l’enorme possesso palla accumulato.
Impossibile dargli torto, e questo punto occorre necessariamente snocciolare qualche numero: la Spagna ha concluso la fase a gironi di Euro 2020, circa 300 minuti di gioco complessivi, con una quota media di possesso palla superiore al 70% e con soli 12 tiri in porta. Ai Mondiali è andata decisamente meglio, almeno ai gironi: possesso palla medio del 77% e 12 gol segnati. Ma poi, contro il Marocco agli ottavi, sono tornate le cattive abitudini: 120 minuti di gioco, più abbondante recupero, e solo un tiro nello specchio.
Debunking Luis Enrique
È ovvio che Luis Enrique e le sue convinzioni abbiano pesato sul gioco della Spagna ai Mondiali. Del resto parliamo dell’allenatore che dodici anni fa tentò – per primo – di importare il gioco di posizione in Italia: ricorderete l’esperienza alla Roma, gli alti e bassi di una stagione interlocutoria, i duelli dialettici e culturali con i giornalisti nostrani che lo intervistavano, la testardaggine nel non voler mai rinunciare all’idea di dominare le partite tenendo la palla. Come dire: i principi di riferimento sono sempre stati quelli. E lo sono ancora oggi.
Ma è vero anche che le scelte di Luis Enrique si basano anche sul materiale che ha a disposizione, quindi con i giocatori che allena. L’ha dimostrato proprio con la Spagna nell’ultimo quadriennio: con Busquets, Pedri, Gavi, Soler, Sarabia, Dani Olmo, Thiago Alcántara e – soprattutto – Morata centravanti, qual è l’alternativa se non forzare il concetto di gioco di posizione in nome del possesso palla? Per chi non avesse presente di chi stiamo parlando: i calciatori della Spagna erano e sono tutti magri, hanno baricentro basso e grande tecnica. Sono il frutto di una scuola che da decenni, per scelta, produce soprattutto questo tipo di profili, ed è un discorso valido dal punto di vista antropometrico e tecnico.
In parole povere: Luis Enrique non aveva molte alternative. E allora ha esagerato, ha reso radicale la sua squadra. L’esatto contrario del suo Barcellona 2014/15, l’ultimo Barça campione d’Europa: dopo una buona esperienza al Celta Vigo, il tecnico asturiano fu scelto come erede di Tata Martino. E trasformò il gioco dei catalani, lo rese più verticale, meno sincopato e avvolgente. Anche in quel caso furono alcuni giocatori a orientare le scelte di Luis Enrique: Luis Suárez e Neymar – entrambi all’apice della carriera – formavano il tridente con Messi, Xavi aveva già iniziato a manifestare i primi segni di declino e al suo posto venne lanciato Ivan Rakitic.
Una bella squadra, non c’è che dire
Il tiqui-taca venne diluito, contaminato con uno stile più diretto. Merito, appunto, dei nuovi. Di Suárez e Rakitic. Che, in qualche modo, spinsero Luis Enrique a giubilare Xavi, a varare un 4-3-3 spurio e fluido in cui Messi spaziava in più ruoli e posizioni, a volte esterno classico, altre trequartista, a volte falso nueve come ai tempi di Guardiola – anche per favorire gli inserimenti di Rakitic, una mezzala decisamente più istintiva e verticale rispetto a Xavi. Lo avrete visto nel video sopra: oltre ai bellissimi gol costruiti col possesso palla armonico, il primo Barcellona di Luis Enrique era una squadra capace di fare pressing altissimo e di ripartire con tre passaggi in croce. Del resto non sfruttare Neymar e Suárez e Messi (ancora 27enne) in campo aperto, o comunque in un campo più aperto rispetto al passato, sarebbe stato un delitto.
Col tempo, questa spinta propulsiva si è affievolita. Il Barcellona di Luis Enrique, come succedeva a ogni ciclo tecnico prima dell’addio di Messi, ha finito per appiattirsi sul fuoriclasse argentino, per diventare una squadra prevedibile. Fortissima, ci mancherebbe, ma monotona nella sua proposta. Non a caso, viene da dire, dopo il Triplete 2015 ha vinto la Liga 2016 e nessun altro grande trofeo; in Champions, al netto dell’incredibile rimonta contro il Psg nel 2017, furono Atlético Madrid e Juventus a eliminare gli azulgrana, sempre ai quarti di finale. Non proprio due squadre spumeggianti, per usare un eufemismo.
Conclusioni
Insomma, Luis Enrique è sicuramente un tecnico idealista. È un allenatore identitario, e il calcio di possesso gli scorre nelle vene. Quando si rende conto che può e/o deve attuare certi principi di gioco, non si tira certo indietro. In fondo gli appartengono: ha giocato nel Barcellona con Van Gaal, ha allenato nella Masía, e basterebbe solo questo. Il punto, però, è che il suo idealismo è in vendita. O meglio: è trattabile sull’altare degli uomini che ha a disposizione.
Sempre al netto di ciò che succederebbe sul mercato, un suo eventuale arrivo a Napoli lo costringerebbe a mettere in discussione alcune delle sue idee storiche. E potrebbe farlo, saprebbe farlo, l’ha già fatto altre volte in carriera. A quel punto anche noi, noi che lo guardiamo da fuori, potremmo dover barattare l’idea che abbiamo avuto e abbiamo ancora di lui. Nelle ipotetiche narrazioni giornalistiche il Napoli di Luis Enrique sarebbe sempre il Napoli del Tiqui-Taca, ma la verità e la storia sono già state diverse. Sia per il Napoli che per lo stesso tecnico asturiano. A pensarci bene gli stereotipi esistono solo per chi li adopera, non certo nella realtà.