Lavorare a Bergamo non è l’esilio di Milan Kundera. La mattina esultiamo per lo scudetto e la sera delegittimiamo chi ce lo conferisce
Tra qualche mese, quando la festa sarà un po’ smaltita e sarà opportuno scegliere le strade di domani, spero il Napoli non imbocchi quella ridicolmente tetra di uno scudetto esibito al contrario sulle gradinate di uno splendido stadio in festa. Mi auguro si torni a chiamare le cose (e solo quelle che si conoscono) col proprio nome.
Anzitutto, Napoli non è vittima di razzismo, se almeno un po’ si rispetta il lessico italiano ed un termine il cui etimo deriva da “razza”. Napoli è oggetto simbolico, semplice e dunque assai adoperato in Italia, di generale discriminazione contro qualunque cosa risulti fastidiosa ed intollerabile alla sensibilissima suscettibilità di una nazione che notoriamente corre sempre in aiuto del vincitore: in questo senso è napoletano il capufficio che non concede l’aumento tanto quanto il vicino che fa baccano. Con un minimo di attenzione si capisce che non esiste alcuna territorialità legata a questo sentimento gretto e dunque nessun merito per chi se ne sente investito. È assai inverosimile che Napoli stia per partorire Martin Luther King, per intenderci. D’altra parte, alle ultime elezioni, la città si è confermata feudo del M5S, le cui politiche migratorie non sono esattamente un esempio fulgido di integrazione. Se i fatti contano ancora qualcosa.
In secondo luogo, lo scudetto capovolto è un capolavoro di efficacia nel mostrare in quale bambagia vivano gli occidentali viziati che lo hanno messo a punto e mostrato al pubblico. Nessuno di loro ha idea di cosa sia una guerra e men che meno di cosa sia un bottino – nonostante ce ne sia una a poche centinaia di chilometri di distanza, dove bottini di beni e di vite se ne vedono a cadenza quotidiana – tuttavia essi adoperano il tifo per giocare a colorare una esistenza normale a tinte grottescamente fosche. Che guerra hanno conosciuto questi napoletani che suonano le trombe ad aria, che cantano e festeggiano sui rigori sbagliati e segnati, che godono di un successo storico, che competono a stilare lo striscione più originale?
Domani, quando le feste saranno terminate, sarà sempre – e per ciascuno – il momento di capire se una trasferta a Milano o un lavoro in provincia di Bergamo siano davvero paragonabili all’esilio di Milan Kundera e una pagina di Silvio Pellico, poiché è sottile la linea che separa lo scompisciamento provocato da questi accostamenti dalla retorica bellica da poltronari ad essere l’oggetto della discussione sul futuro. Sarà anche il caso di chiedersi che differenza esista tra una società del nord che, in sfregio alla associazione sportiva che pure la incorona vincitrice, per anni rivendica un certo numero di scudetti vinti sul campo e una tifoseria che la mattina esulta per lo scudetto e la sera dice che non riconosce la legittimità di chi glielo conferisce.
Anche nella festa, cercate di essere seri.