A Le Parisien: “Ho martirizzato il mio corpo, ma siamo atleti di alto livello e dobbiamo farlo senza avere la sicurezza di ciò che otterremo in cambio”
“Non ho mai giocato senza provare dolore”. E soffrendo ha vinto al Roland Garros, ha vinto gli Australian Open e gli Us Open. Tre Slam su quattro nell’epoca di quei tre imbattibili. E soffrendo, a 38 anni, è ancora a Parigi. Non molla Stan Wawrinka. Il tennista svizzero-non-Federer detta a Le Parisien la ricetta della lunga carriera ai vertici del tennis. In una parola sola: sofferenza. Fisica e/o mentale.
“Non possiamo confrontarci tra noi, perché tutti abbiamo un diverso grado di resistenza al dolore. Io ho spinto i limiti di ciò che è accettabile più di una volta e non lo dico con orgoglio, è così. So che la mia soglia di tolleranza è molto alta. Non è una cosa che mi preoccupa. Ci sono diversi dolori. C’è il dolore fisico, il dolore mentale, il dolore della fatica. Ci sono molti dolori che ti fanno spingere oltre i limiti del tuo corpo e anche della tua testa”.
“Stan the Man” ora è numero 88 al mondo, non vince un torneo dalla primavera del 2017. E’ stato in sala operatoria quattro volte: due per un ginocchio e altre due per il piede sinistro. E’ stato fuori più di un anno. “Resistiamo, ma c’è un momento in cui diventa troppo forte, quasi ossessivo”, continua l’ex numero 3 del mondo. “Abbiamo dolore ogni giorno, dalla mattina alla sera. Per forza, pensiamo solo a quello e non ce la facciamo più. Ecco perché ho smesso per via del piede, due anni fa. Giocavo con questo dolore ogni giorno da più di un anno e sapevo che dovevo sottopormi a un intervento chirurgico perché non era più possibile. Ma finché la mente regge e riesci a dare il massimo con un buon livello, continui. Fino al giorno in cui…”.
“Devi essere in grado di ricostruire te stesso ogni volta. Mi ci sono voluti più di nove mesi solo per correre normalmente. E ancora, ho ripreso con dolore. Lo sapevo, ma dobbiamo affrontarlo. Non ci arrendiamo, perché abbiamo la passione per il tennis, l’amore per lo sport, la voglia di ritrovare un buon livello, di tornare a giocare davanti al pubblico. Quando hai dolore mentale o affaticamento mentale, l’intero castello di carte crolla. Potremmo essere pronti tennisticamente e fisicamente, ma non vinceremo. Abbiamo bisogno della mente per sapere cosa faremo, per stare in partita, per trovare soluzioni. La testa è il motore”
C’è chi nel dolore trova stimoli… “Abbiamo visto molte volte ragazzi che si infortunano e iniziano a rilassarsi nella parte superiore del corpo, a giocare meglio. Ma alla lunga non funziona. Preferisco stare bene e non usare le energie per soffrire. Non ho bisogno di provare dolore o trovare scuse per motivarmi. Sono più il tipo che dice a me stesso: ho dolore, ok, non ho dolore ok. Se mi dico che non esiste un rischio estremo, metto da parte la sofferenza, e continuo. Dopo un po’, conosci il tuo corpo. Quindi sì, ho martirizzato il mio corpo, ma non credo di aver chiesto troppo. Per me non è paradossale dirlo. Siamo atleti di alto livello e volevo avere la migliore carriera possibile. Quindi siamo costretti ad andare oltre i limiti senza sapere esattamente cosa possiamo ottenere in cambio. A Nadal, a 19 anni, tutti dicevano che non sarebbe arrivato a 25. E ha vinto Parigi a 36 anni. Siamo tutti diversi. Gestiamo nel miglior modo possibile ciò che sappiamo di noi stessi. Ecco perché non puoi giudicare dall’esterno”.
Nadal e le sue tante rimonte dall’inferno, Djokovic che gioca con gli strappi addominali o alle cosce, Murray che resiste con la sua anca di titanio… E i giovani? “Abbiamo superato tutti i 35 anni e il nostro corpo è stato usurato per vent’anni. Bisognerà vedere quando anche i giovani di oggi avranno 35 anni se riusciranno a superare i propri limiti. Lasciamoli invecchiare e vediamo”.