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Garcia non è un allenatore identitario, con lui Adl ha messo i giocatori al centro del villaggio

È un camaleonte, non è un integralista del 4-3-3, non è ossessionato dagli schemi. È per un calcio verticale e più libero

Garcia non è un allenatore identitario, con lui Adl ha messo i giocatori al centro del villaggio
As Roma 08/11/2018 - Europa League / Lazio-Olympique Marsiglia / foto Antonello Sammarco/Image Sport nella foto: Rudi Garcia

Un allenatore non identitario

Assumere Rudi Garcia è una scelta con cui Aurelio De Laurentiis ha smentito se stesso. Per un motivo molto semplice: rispetto ad altri allenatori accostati al Napoli in queste settimane, su tutti Luis Enrique e Vincenzo Italiano, stiamo parlando di un tecnico che non è un cultore del 4-3-3. Oppure, diciamola meglio: non è un integralista di questo sistema di gioco. L’ha praticato e quindi lo conosce, come vedremo nell’analisi che faremo tra qualche riga, ma il suo approccio è un altro. Anzi, per descrivere e presentare il calcio di Garcia serve partire da un concetto esattamente opposto a quello a cui ha fatto riferimento De Laurentiis: Garcia è un camaleonte, uno che sa adattarsi e anche deformarsi in base alle circostanze. Al materiale umano che ha a disposizione. Non è un allenatore identitario, non è rigido, non è ideologizzato.

L’arrivo di Garcia al posto di Spalletti, in questo senso, è un grande atto politico voluto e perpetrato da De Laurentiis. E non perché lo switch inverso del 2016 segnò, per l’allenatore francese, la fine della sua avventura alla Roma: rispetto a Spalletti, come vedremo, Garcia lavora in modo diverso, è meno ossessionato dagli schemi, fonda la sua leadership su altri aspetti; il suo è un calcio più immediato, più essenziale, quindi inevitabilmente più libero. Questo cambio avrà un impatto importante sui giocatori del Napoli, anzi l’ha già avuto: De Laurentiis ha fatto un evidente – e ingente – investimento su di loro, sulla loro qualità. Sulla loro personalità, soprattutto.

Dieci anni fa

A pensarci bene, anche la prima esperienza in Italia di Rudi Garcia era cominciata in una situazione simile, non per risultati pregressi ma per eredità tattica: esattamente dieci anni fa, era il 2013, la Roma era reduce dalla tragicomica staffetta tra Zeman e Andreazzoli, quindi da una stagione vissuta in preda alle visioni metafisiche di due allenatori idealisti, e dalla finale di Coppa Italia persa contro la Lazio. Garcia arrivò da semisconosciuto, scelto e voluto da Walter Sabatini, e non fece altro che rimettere le cose al loro posto. Con un 4-3-3 lineare, basico, in cui De Rossi faceva il mediano davanti alla difesa, Maicon faceva il terzino destro, Pjanic, Florenzi e Strootman (poi sarebbe arrivato anche Nainggolan) erano le mezzali, Gervinho faceva l’esterno offensivo. Zero astruserie, zero invenzioni particolari, a una prima occhiata.

In realtà la prima Roma di Garcia aveva un’identità forte, anche radicale se vogliamo: Totti, schierato da prima punta mobile, faceva da smistatore per gli inserimenti lunghi di Gervinho e Maicon; le due mezzali, non tanto diversamente da quanto è successo quest’anno nel Napoli di Spalletti, si scambiavano spessissimo posizione e attribuzione, alternando l’impostazione bassa accanto a De Rossi e il supporto a Totti come sottopunta. Più di ogni altra cosa, però, quella Roma era una squadra verticale: proprio per esaltare le corse in campo aperto di Gervinho, Garcia mise a punto un possesso arretrato quasi scheletrico, voleva che i suoi giocatori risalissero il campo con pochi tocchi, rapidamente, così da cogliere impreparate le difese avversarie. E in effetti quell’anno vedemmo il miglior Gervinho di sempre, il miglior Gervinho possibile:

In diversi momenti di quella stagione, Gervinho dette l’impressione di essere incontenibile

Per sostenere questo gioco offensivo, inevitabilmente, Garcia dovette architettare una fase difensiva proattiva, aggressiva, quasi feroce nei momenti migliori. Il ricordo che si ha della Roma 2013/14, anche fuori dal Grande Raccordo Anulare, è proprio quello di una squadra combattiva, capace di mordere le partite e gli avversari. Di asfissiarli anche senza tenere il controllo del pallone in modo ossessivo. Certo, il lato oscuro di un approccio del genere stava nella difficoltà in fase di transizione negativa, quando gli avversari riuscivano a superare la prima e la seconda linea di pressing. E allora gli spazi davanti ai centrali giallorossi – Benatia e Castán – e a De Sanctis diventavano un’ampia prateria tutta da attaccare.

Regredire rimanendo fermi

Non a caso, viene da dire, la rivoluzione della normalità di Garcia – che alla prima stagione in Italia determinò dieci vittorie nelle prime dieci gare di campionato, un secondo posto a 85 punti e una semifinale di Coppa Italia persa contro il Napoli di Rafa Benítez – finì per annacquarsi e per perdere consistenza quando Sabatini, attraverso il mercato, provò a integrare la rosa con profili dalla qualità più aristocratica, con giocatori più tecnici che aggressivi, vale a dire i vari Keita, Iturbe (una delle più grandi delusioni nella storia del calciomercato romanista), Astori, e poi anche Dzeko, Salah, Digne.

La seconda e la terza Roma di Garcia, per dirla brutalmente, dettero l’impressione di essere le brutte copie della prima edizione. Ed effettivamente era proprio così, perché il tecnico francese continuò a predicare e far praticare un calcio poco ricercato, fin troppo semplice e semplificato per i giocatori che aveva a disposizione. Interrogato dalla stampa, ne faceva una questione di testa, di impegno, di forza mentale dei giocatori; parlava poco di campo e molto di concetti come rabbia agonistica, concentrazione, determinazione.

Dal punto di vista tattico, quindi, la Roma di Rudi Garcia è stata una squadra che ha segnato una svolta – senza toccare grandi picchi di innovazione – e poi è rimasta ferma. Anzi: si è impantanata, come se si fosse cristallizzata. Così è regredita, fino a risultare ripetitiva, insipida, fin troppo legata alle intuizioni – quindi alle condizioni psicofisiche – dei suoi migliori giocatori. Gervinho su tutti.

Marsiglia

In Francia, prima al Marsiglia e poi al Lione, Garcia ha dimostrato di poter e saper fare qualcosa di diverso rispetto a Roma. Ha chiarito che il blocco vissuto in giallorosso era psicologico, più che tecnico-tattico. Non che il suo OM e il suo OL – entrambe le squadre si chiamano formalmente “Olympique” – abbiano rivoluzionato il gioco, e ne parleremo. Ma almeno si è visto qualche esperimento interessante, qualche nuova intuizione strategica. Per esempio il 4-2-3-1 costruito intorno a Dimitri Payet, e ovviamente stiamo parlando del Marsiglia. Al Vélodrome, soprattutto nella stagione 2017/18, Garcia ha fatto vedere un calcio ambizioso e frizzante. Magari poco articolato quando c’era da costruire dal basso, ma molto creativo in fase offensiva, grazie alla formazione costante di rombi e triangoli di possesso tra centrocampo e trequarti avversaria.

Dimitri Payet, un talento enorme

Quel Marsiglia, esattamente come la prima Roma di Garcia, non aveva un centravanti puro – Germain era un attaccante-incursore, una sorta di “movimentatore” sull’intero fronte offensivo – e cercava di portare molti uomini in zona palla per favorire le combinazioni strette tra i suoi trequartisti. Nel terzetto, come detto, brillava la classe anarchica e stroboscopica di Payet, ma anche Lucas Ocampos e Florian Thauvin vissero una grande stagione. Soprattutto in Europa League: solo l’Atlético Madrid di Simeone, e solo in finale, riuscì a fermare la corsa di Garcia.

Intorno a quella stagione, però, va anche detto che Garcia ha ottenuto e lasciato poco: non è mai andato oltre il quarto posto; non ha vinto nessun trofeo. anche se col Psg di mezzo era un’impresa al limite del paranormale; le sue sperimentazioni tattiche furono limitate alla ricerca di maggior solidità arretrata con l’inserimento di un terzo difensore centrale. Una scelta inevitabile, se non sei un allenatore identitario, se la tua squadra concede tanto campo in transizione e subisce 46 gol in 38 partite di campionato.

Lione

Forse è per questo che a Lione, nella tappa successiva, abbiamo visto il Garcia più speculativo, più italiano – nel significato difensivo e dispregiativo del termine. Dopo un inizio ambizioso, fondato ancora sul 4-2-3-1, il tecnico ispano-francese – suo nonno lasciò l’Andalusia e si trasferì nelle Ardenne, sul confine tra l’Esagono, il Belgio e il Lussemburgo – varò infatti una difesa a tre e una fase di non possesso di pura attesa, di puro contenimento, a cui faceva seguito un sistema d’attacco tutto basato sulle ripartenze in campo aperto, sulle giocate in verticale alla ricerca delle mezzali e delle punte.

Ecco, quello della verticalità è un tratto ricorrente, un tema continuo nel percorso tattico di Garcia. A Lione, la scelta fu fatta in modo da esaltare il talento in campo aperto di Memphis Depay. Vale a dire un’altra prima punta tutt’altro che pura, piuttosto un attaccante rapido e rapace, un fromboliere eccezionale nello sprint palla al piede. Nei duelli occhi negli occhi con i difensori avversari.

Un altro giocatore di enorme qualità

Questa mossa portò dei dividendi soprattutto in Champions League: l’OL eliminò la Juve. Quindi il Manchester City nelle sfide giocate nell’agosto post-Covid, poi venne battuto dal Bayern Monaco in un modo meno netto di quanto non abbia detto il risultato finale – 0-3 in favore dei bavaresi. Un sistema di questo tipo, però, non poteva funzionare in un contesto come la Ligue 1. Che, ricordiamolo, è un campionato dove le squadre medio-borghesi – come il Lione – hanno valori tecnici molto più alti rispetto alle piccole. E allora devono saper andare oltre la tensione verticale, devono saper muovere il pallone e le difese avversarie con una certa qualità. Con una certa ricercatezza.

Anche per questo, nella seconda stagione all’OL, Garcia è tornato sui suoi passi: ha ripristinato la difesa a quattro, la batteria dei tre trequartisti, i rombi e i triangoli per risalire il campo in modo armonico. Così ha provato – ed è riuscito – a esaltare il talento di Lucas Paquetá, ma è ricaduto nei suoi soliti vizi di forma: squadra troppo lunga, difesa friabile, risultati altalenanti.

E ora il Napoli

Anche saltando a piè pari la parentesi in Arabia Saudita, un’avventura durata dieci mesi che non ha senso citare in un’analisi di questo tipo, si può dire che la storia di Garcia lo definisce come allenatore in modo piuttosto chiaro. Il Napoli, per dirla in poche parole, ha preso un tecnico che, nell’ordine: vuole campo da attaccare e quindi, inevitabilmente, ne concede; non ama il possesso articolato dal basso, vuole che il pallone arrivi presto in avanti così che si attivino i suoi talenti offensivi; adatta il suo sistema ai giocatori che ha a disposizione, trovando sempre un compromesso tra le sue idee e le loro qualità.

Partendo da qui, è evidente – come detto – come questa scelta di De Laurentiis abbia una forte connotazione politica. Piuttosto che investire su un allenatore-tattico, il presidente del Napoli ha fatto un atto di consolidamento e conservazione, ha messo i suoi giocatori e il loro talento al centro del villaggio – e non la chiesa, come disse proprio Rudi Garcia dopo la sua prima vittoria nel derby romano.

I giocatori azzurri avranno maggiore libertà di movimento e interpretativa rispetto all’era-Spalletti, e quindi dovranno essere loro a dimostrarsi pronti per questo step ulteriore. Per quello che è un vero passaggio di stato: se nel frattempo Rudi Garcia non ha subito mutazioni genetiche profonde, il Napoli sta per trasformarsi in una squadra meno sofisticata, meno preparata ma più sciolta a livello tattico. La reale direzione di questo cambiamento dipenderà inevitabilmente dal mercato, dalla riconferma o dall’addio dei calciatori più influenti. Solo dopo si potrà fare un’analisi più circostanziata, più precisa e profonda. Per il momento, non possiamo fare altro che leggere il passato, per immaginare il futuro.

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